La Stagione Cinematografica 2011/2012


(Cliccate sui titoli per accedere alle schede dei film con i trailer e le foto in alta risoluzione scaricabili)

16 dicembre
di Luc e Jean-Pierre Dardenne

13 gennaio
di Romain Goupil

20 gennaio 
di Asghar Farhadi

3 febbraio 

10 febbraio 
di Céline Sciamma

17 febbraio 
di Emanuele Crialese

24 febbraio 
di Ermanno Olmi

2 marzo
di Giorgia Cecere

9 marzo

23 marzo
di Nicolas Winding Refn

30 marzo 
di Pascal Chaumeil

13 aprile 

20 aprile 
di Wim Wenders


Orario Spettacoli: 17.45 e 21.15
Quota Sociale: Adulti € 33,00 – Studenti € 27,00
Sala Chaplin (Consultorio “Il Focolare”)
Via Plateia 142 - 74100 Taranto - Telefono 099.7353802
aderente al Centro Studi Cinematografici


16 dicembre, "Il ragazzo con la bicicletta" di Luc e Jean-Pierre Dardenne


Il ragazzo con la bicicletta
di Luc e Jean-Pierre Dardenne


(Le gamin au vélo)
Con Cécile De France e Olivier Gourmet
Belgio, 2011
Durata: 87’
Drammatico


Cyril ha quasi dodici anni e una sola idea fissa: ritrovare il padre che lo ha lasciato temporaneamente in un centro di accoglienza per l'infanzia. Incontra per caso Samantha, che ha un negozio da parrucchiera e che accetta di tenerlo con sé durante i fine settimana.



Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi' e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell'essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l'ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio', sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell'infanzia è l'unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l'amore.
(Marzia Gandolfi, da MyMovies.it)








13 gennaio 2012, "Tutti per uno" di Romain Goupil


Tutti per uno
di Romain Goupil


(Les mains en l'air)
Con Alice Butaud e Valeria Bruni Tedeschi
Francia, 2010
Durata: 90’
Drammatico


Milana è una bambina di origine cecena che vive a Parigi. Quando l'amico Youssef, viene rimpatriato perché i genitori non hanno il permesso di soggiorno, lo stesso destino sembra attendere anche lei. Ma i suoi compagni decidono di mettere in atto un piano per salvarla...



Diviso fra l’orrore delle leggi e lo stupore dell’infanzia, l’emergenza dei sans papiers e l’urgenza del crescere tutti insieme, Goupil segue il suo colorito gruppetto di protagonisti senza mai perdere d’occhio gli adulti, anzi ne registra le incertezze e la cautela, l’indignazione e la tendenza al compromesso (incarnata dal padre di Blaise, che ironicamente è proprio il regista Goupil, nella vita «gauchiste» non pentito).
Ma il bello del film è proprio il tono apparentemente svagato con cui segue le peripezie di tutti, adulti e bambini, a scuola e poi in vacanza (c’è una lunga digressione in Bretagna, in cui tutto sembra mettersi per il meglio, che prepara la svolta della seconda parte). Per mettere le ali quando segue l’evoluzione della piccola rete «clandestina» allestita dai compagni di classe di Milana. Prima per trafficare in cellulari e dvd, perché i riti dell’infanzia non cambiano ma i suoi oggetti sì.
Poi per combattere non solo le leggi ma il mondo degli adulti, con un’azione esemplare che rimetterà tutto in discussione. Difficile affrontare un problema così logorato dalla cronaca in modo più spiazzante. Come ci ricorda anche il prologo che sospende tutto in un lontano futuro. Quando l’anziana Milana ricorda quegli anni lontani come un’avventura ormai assurda. Successa sotto un Presidente di cui non ricorda più il nome.
(Fabio Ferzetti, da Il Messaggero, 3/6/11)









20 gennaio 2012, "Una separazione" di Asghar Farhadi


Una separazione
di Asghar Farhadi

(Jodaeiye Nader az Simin)
Con Leila Hatami e Merila Zarei
Iran, 2011
Durata: 123’
Drammatico


Nader e Simin hanno ottenuto il visto per lasciare l'Iran ma lui si rifiuta di abbandonare il padre affetto da Alzheimer. Simin intende chiedere il divorzio per partire lo stesso con la figlia Termeh, mentre Nader si trova coinvolto in una rete di bugie, manipolazioni e confronti...




Nader and Simin, a Separation è un film di scrittura, ancorato alla realtà, alla quotidianità del popolo iraniano, alle questioni religiose, al concetto di verità e menzogna: il primissimo pregio di Farhadi, ovviamente anche sceneggiatore dei suoi film (e non solo), è di saper controllare e plasmare tutto questo materiale, di non eccedere mai, di non smarrirsi nel labirinto narrativo, di saper mettere in scena con piglio modernamente neorealista i volti, le parole e i sentimenti dei suoi personaggi, della gente comune. Il cinema di Farhadi è stratificato eppure immediato (…): le difficoltà e gli errori dei singoli andranno a sommarsi, ingigantendosi, svelando colpe, menzogne, rivelando debolezze. E sulla menzogna (o, meglio, sulla verità), con annessi e connessi religiosi, Farhadi costruisce una moderna operetta morale, indagando sulle motivazioni dei gesti e sulle inevitabili conseguenze: lucido, mai al di sopra dei propri personaggi, lontano da qualsiasi giudizio, il cineasta iraniano riesce a mettere in scena con spiazzante lucidità e profondità storie già viste e raccontate. Ma la forza di Farhadi è nel punto di osservazione, nella qualità della scrittura, nel peso specifico delle parole, degli sguardi, del sottaciuto. E nei dettagli: la gioiosa corsa per le scale di Nader e Termeh, il fuori campo finale della stessa Termeh, il pianto di Nader sulla spalla dell'anziano e malandato padre...
(Enrico Azzano, da CineClandestino.it)











3 febbraio 2012, OffiCinema: Omaggio a Lee Chang-dong



OffiCinema
Omaggio a Lee Chang-dong

AVVISO AI SOCI
solo per l'OffiCinema dedicata a Lee Chang-dong
sono previsti gli incontri sia alle ore 17.45 che alle ore 21.15
















Lee Chang-dong
Nato nel 1954 a Daegu in Corea, Lee Chang-dong si è diplomato in lingua e letteratura coreana presso l’Università di Kyungbuk. Comincia la sua carriera in teatro a vent’anni, poi intraprende una carriera letteraria e di insegnante di liceo diventando uno degli scrittori più in vista della sua generazione. Ma nel 1993, su incoraggiamento del suo amico, il cineasta impegnato Park Kwang-su, si unisce come sceneggiatore e aiuto regista alla produzione del film L’Ile Etoilée. In seguito collaborerà con Park come sceneggiatore di A Single Spark nel 1995.
Con il lungometraggio Green Fish, film noir unico nel suo genere che sorprende il pubblico coreano per la sua descrizione realista dell’ambiente criminale, fa il suo debutto come regista. Green Fish è una sperimentazione delle convenzioni del film di genere e del mondo reale. Lee Chandong proseguirà in questa esplorazione della vita e del cinema con Peppermint Candy, film in cui gioca col procedimento del ritorno indietro nel tempo, e con Oasis in cui esamina il significato di vero amore. Con questi due film ottiene il consenso della critica e un successo popolare ancora maggiore di quello che aveva ottenuto con Green Fish, con un’accoglienza entusiasta sia in Corea che a livello internazionale. Oasis varrà a Lee e alla sua attrice protagonista Moon So-ri i premi per la miglior regia e per la migliore interpretazione femminile alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2002, viene nominato Ministro della Cultura e del Turismo. Quando nel 2004 lascia quell’ incarico, crea una sua società di produzione, la Pine House Film. Il primo film prodotto dalla società sarà il quarto lungometraggio di Lee Chang-dong, Secret Sunshine. Due suoi racconti raccolti in Un éclat dans le ciel sono stati pubblicati in francese dalla casa editrice Seuil nel 2006. Sempre nel 2006, Lee Chang-dong viene nominato cavaliere della Legion d’onore. Secret Sunshine è presentato in competizione ufficiale al Festival di Cannes nel 2007 e l’attrice protagonista Jeon Doyeon vince il premio per la migliore interpretazione femminile. Il film riceve anche il premio per il miglior film e per la miglior regia al sesto Korean Film Award nel 2007, e nel 2008 ottiene i premi per il miglior film e per il miglior regista alla seconda edizione degli Asian Film Awards.
Nel 2009 Lee Chang-dong fa parte della giuria del Festival International du Film di Cannes e coproduce con Laurent Lavolé/Gloria Films, il primo film di Ounie Lecomte Une vie toute neuve.
Attualmente insegna regia e scrittura cinematografica presso l’Università nazionale delle arti di Corea.
Il suo ultimo film è Poetry (2010), in concorso al Festival di Cannes di quell'anno, dove conquista il Premio per la Sceneggiatura (firmata dallo stesso regista) e il Premio della Giuria Ecumenica OCIC. 

FILMOGRAFIA
2002 Oasis/Oasis
2000 Bakha Satang/Peppermint Candy
1996 Chorok Mulgoki/Green Fish

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da
Le Cinématographe, salle de cinéma à Nantes et Education à l'image
par Yann Kerloc'h


Lee Chang-dong est un homme-clé de la culture coréenne, bien au delà de ses réalisations cinéma, les percutants Oasis et Peppermint Candy : professeur, écrivain, scénariste majeur, il fut surtout ministre de la culture pendant plus d’un an et a marqué l’institution par un style à la Jack Lang. Rencontre à cette occasion, dans son bureau officiel, avec un homme trop philosophe pour être à l’aise dans un ministère.

Au ministère de la Culture et du tourisme de Corée du Sud, un bureau a résisté au protocole pendant que l’occupait le cinéaste Lee Chang-dong, entre 2003 et 2004. Le jour de son investiture, il est venu au volant de sa voiture et sans cravate. Dans une déclaration qui fait le tour du pays, il a comparé ses fonctionnaires à des gangsters, tellement leur protocole lui faisait penser à celui des mafieux. C’est habillé en gangster qu’on a interviewé Lee Chang-dong, après une attente auprès de secrétaires toutes en courbettes qui rappelaient l’importance du personnage. Dans un bureau officiel, c’est bien un ministre en cravate qui nous sert la main. Mais, une fois assis, l’homme enlève le symbolique artifice et le jette théâtralement à l’autre bout de la table de conférence. Puis il allume une cigarette. Lee Chang-dong quittait ainsi son costume d’« ambassadeur de la culture coréenne » pour mettre la casquette "réalisateur", celle qui l’a fait connaître. Son troisième film, Oasis, représente un cinéma coréen en grande forme et un pays lucide par rapport à ses problèmes. Le cinéaste n’a rien du tâcheron officiel, il est plutôt, comme les frères Dardenne en Belgique, un critique acerbe de sa société, respecté mais jamais intégré.

L’homme est tout en contradictions, son corps imposant essayant tant bien que mal de les contenir toutes. Sa promotion couronne à 49 ans un parcours modèle : né dans une famille aisée de province, il a pu faire des études littéraires à Séoul. Il est d’abord un écrivain réputé, puis rejoint le cinéma avec deux scénarios pour le réalisateur Park Kwang-su, To The Starry Island et A Single Spark, des films qui accompagnent le renouveau du cinéma coréen dans les années 90. En 1997, Green Fish le lance d’emblée comme un cinéaste majeur, puis le second, Peppermint Candy, fait sensation en Corée et va à la Quinzaine des Réalisateurs de Cannes. La consécration vient avec Oasis, Prix de la mise en scène et d’interprétation féminine au festival de Venise 2002. Lee Chang-dong n’a donc pas manqué d’occasions de mettre la cravate.
Mais il était aussi du côté des étudiants qui manifestent en 1980, lorsque la Corée est une quasi dictature militaire. Son premier roman, Jeonlli, évoque les émeutes sanglantes de cette année-là à Kwangju, un "Tien An Men" local. Son deuxième livre, qui vient d’être traduit en France sous le titre Nokcheon, affichait clairement sa couleur polémiste. Il s’appelait plus précisément : "Nokcheon est couvert d’excréments".Peppermint Candy, lui, remue littéralement la merde : le film démarre par un suicide, puis remonte vingt ans en arrière pour raconter le massacre de Kwangju, la torture dans les commissariats et la crise économique de 1997. Green Fish est la chronique désenchantée d’une ascension sociale, de la province jusqu’à la mafia de la capitale. Avec Oasis, Lee Chang-dong semble offrir un échappatoire en racontant un amour fou, mais c’est une idylle impossible concrètement, mirage dans un désert de sentiments. "Les gens pensent que je suis pessimiste, admet-il. Mais je crois que je suis optimiste. Si le spectateur peut avoir une affection pour le destin d’un personnage, c’est là que commence l’espoir". Il a accepté son rôle de ministre avec "l’espoir d’un petit changement dans les sujets qui m’ont fait réfléchir". Mais, contradiction oblige, il a longuement hésité à endosser le costume.

Lee Chang-dong réfléchit avant tout sur la liberté et ses entraves, mène la guerre contre les carcans, dans la société ou à l’intérieur de soi. "Il est très difficile de changer les fonctionnaires, c’est mondialement connu, dit-il sans mettre de gants. Puisque nous sommes au Ministère de la Culture, les fonctionnaires doivent penser et réagir librement, comme les artistes. Le plus important est d’être libre". En matière de cinéma, il a du d’atteler à défendre un modèle d’"exception culturelle" inspiré par le système français. La Corée du Sud s’est en effet dotée de quotas qui obligent les cinémas à programmer un certain nombre de films coréens. Lee Chang-dong fut responsable d’un comité de soutien au système et a maintenu fermement cette conviction une fois au ministère. Le pays a une fréquentation qui fait pâlir d’envie.Minority Report avait même été un moment dépassé par… Oasis ! "Mais si on regarde de près, il y a beaucoup de choses à améliorer", constate le cinéaste-ministre. Ainsi la distribution des petits films ou à la fin de restrictions visant les films japonais, pour encore plus de diversité. Il a quitté son ministère notamment parce qu’il ne supportait plus les pressions américaines pour faire sauter les quotas. Il y a quelques mois, ils ont été réduit de moitié et toute la communauté cinématographique, lui en tête, repart en bataille.

Sur sa propre liberté, le ministre Lee Chang-dong était aussi pessimiste que le cinéaste. Son oasis, il la trouvait dans sa voiture, avant d’aller affronter les cravatés : "Je met la musique à fond et je chante, racontait-il . En dehors de ce moment, je ne me sens pas très libre au ministère". Il dit avoir eu "l’impression de rentrer dans un monde complètement inconnu". Les héros de ses films sont des inadaptés à un univers d’hypocrisie. Celui d’Oasis est rendu débile par sa famille conservatrice. "Jong-du est quelqu’un que tout le monde n’aime pas, explique Lee Chang-dong. Il ne sait pas comment s’adapter à la société. De temps en temps, elle l’utilise pour faire des choses que les autres n’aiment pas faire". Jong-du aime une tétraplégique qui désarticule un corps meurtri et s’exprime péniblement, parfois juste en hurlant. Il y avait déjà un personnage d’handicapé dans Green Fish. Pour Lee Chang-dong, c’est est un rappel autobiographique (un membre de la famille est handicapé) et une façon claire de montrer le refoulé de la société, ce qu’on cache parce qu’il exprime le vrai fond.
"Leur point commun est d’avoir un problème de communication", résume t-il. C’est aussi ce qu’on dit de lui, à un niveau moindre évidemment. "Il a une tendance à être très peu communicant, raconte Moon So-ri, l’actrice d’Oasis et de Peppermint Candy. Il peut prendre deux heures pour exprimer sa pensée". C’est vrai que l’homme est un peu ours, mais son sourire est sincère. Un journaliste coréen le juge "difficile au premier abord", mais c’est, là encore, une question de style : "L’habit de tous les jours convient bien à cet homme modeste et pensif", écrit-il par la suite.

Lee Chang-dong nous a en effet longuement parlé dans son bureau de son idée de l’amour ("un rêve partagé, alors que normalement, ce que j’ai rêvé ne peut pas être rêvé par quelqu’un d’autre") ou de son envie d’"expérimenter à quel point un film peut communiquer avec les spectateurs". Il a abandonné le plan fixe, habituel dans les films asiatiques. Voilà pourquoi un ministre de la 11ème puissance mondiale disserte, dans son bureau, sur la caméra portée : "Je voulais donner une impression d’instabilité entre la réalité et le fantasme. Je voulais aussi casser l’"encadrement", car un cadre est quelque chose de complet. La caméra portée tremble, comme la frontière entre le monde parfait et l’instabilité."
Passer du "fixe" à la caméra portée, c’est ce qu’il a fait au ministère. Alors que l’interview aurait pu se terminer au bout de la demi-heure prévue, avec l’attaché de presse qui fait irruption dans le bureau montre en main, le ministre a discuté une heure et demie, sans être dérangé, comme s’il avait la journée devant lui, on imaginait les secrétaires affolées. Pendant ses autres moments "sans cravate", l’idée a t-elle germé de filmer sa liberté au sein d’un ministère ? Sa réponse est cinglante: "Je ne l’envisage pas du tout. Parce que ce serait une histoire que je déteste et que les spectateurs n’aimeraient pas". Il prépare un nouveau film au sujet encore secret. L’homme Lee Chang-dong a eu décidément du mal avec son costume : "Quand même, je me demande si je ne suis pas devenu trop philosophe, disait-il alors. J’essaie d’être le même homme. Mais les gens me regardent différemment et quand je parle, je ne peux pas être aussi franc qu’avant. De temps en temps je me sens déstabilisé. Est-ce que j’ai vraiment changé ?".




Trailer - Poetry (2010)




Trailer - Secret Sunshine (2007)









Poetry o l'elogio del vuoto

Il regista sudcoreano Lee Chang Dong presenta in Italia il suo pluripremiato film.


mercoledì 30 marzo 2011 
di Ilaria Ravarino


Quando Lee Chang-Dong appare, nel giardino della Casa del Cinema di Roma, in pochi lo riconoscono. In vita sua ha girato solo 5 film, che sono bastati a imporlo come uno dei più grandi registi contemporanei, premiati alla Mostra di Venezia e a Cannes, dove nel 2009 è stato membro di giuria. È regista, ma in patria anche amatissimo scrittore e poeta, ed è stato persino Ministro, in Corea, nel 2003: è rimasto in carica solo un anno, troppo forte il richiamo della scrittura per trattenerlo nel grigio ufficio della Cultura e del Turismo. Nel verde di Villa Borghese Chang-Dong si confonde fra i turisti, qualcuno gli chiede di scattare una foto, lui scuote la testa, poi accetta e sorride. Con grazia tutta orientale si sottrae ai complimenti dei giornalisti che lo riconoscono, firma qualche autografo, e prima di cominciare a parlare del suo film, Poetry, in sala dal primo aprile, si scusa: "Mi dispiace avervi trattenuti tutto questo tempo e vi ringrazio per la pazienza di aver visto un film così lungo". Il pubblico dell’anteprima, che ha caldamente applaudito il film, risponde battendo ancora una volta le mani al maestro.

L’immagine che Poetry offre della Corea è quella di una società violenta, dominata dall’incomunicabilità. È davvero così? 
No, anzi. Le violenze sessuali, per esempio, nel nostro paese non sono molto diffuse. E tuttavia fatti del genere possono accadere ovunque. Anche l’incomunicabilità fra generazioni, che è uno dei temi del film, non è tanto una caratteristica del popolo coreano quanto dell’umanità in generale. È difficile entrare nella testa dei più giovani, oggi c’è un abisso tra nonni e nipoti. Spesso, guardando mio figlio, mi sono fatto le stesse domande della protagonista del film: cosa starà pensando quel ragazzo? Chi è veramente, questa persona cui voglio tanto bene? E se nascondesse un mostro?

Perché ha scelto di girare un film sulla poesia? 
Perché in questa nostra vita, in cui non facciamo altro che coprirci di parole, la poesia la stiamo lasciando morire. E allora mi è venuta voglia di raccontare l’insospettabile ruolo che la poesia può avere nelle nostre vite, e con essa la ricerca di una bellezza invisibile ai nostri occhi. Un tema difficile, lo so. Ho ricevuto molte critiche per la mia scelta di intitolare il film “Poesia”.

Perché ha scelto un finale aperto? 
Lasciare le cose in sospeso mi piace. Mi piace lanciare allo spettatore una sfida, una sorta di “morality play”, un gioco di morale. Se trovi un portafogli per terra e te lo metti in tasca, la tua azione avrà una conseguenza. Se invece lo consegni a qualcuno, a un prete magari, l’azione avrà una conseguenza diversa. La nostra protagonista ha consegnato suo nipote alla polizia? Non lo ha fatto? Credo che questa domanda debba rimanere senza una risposta da parte mia: alle soluzioni io preferisco il vuoto. Forse, come accade in altri film, avrei potuto mostrare la sofferenza, il sacrificio della protagonista, per rendere più toccante la materia narrativa. E invece ho preferito rappresentare una sofferenza nascosta, che si intravede appena, di cui lascio l’interpretazione allo spettatore.

Se dovesse condensare in poche parole il senso del suo film? 
Il film racconta di un’anziana che scrive poesie per la prima volta. Dapprima cerca la bellezzavisibile, poi capisce che la bellezza la si può trovare solo dopo aver vissuto l’orrore, la sofferenza, il lato oscuro delle cose.

Nel suo film le donne appaiono più responsabili degli uomini. Perché? 
La mia protagonista, a differenza degli uomini che la circondano, ha una ferita interiore, un forte senso di colpa che la rende più sensibile. E poi in generale le donne sono più profonde degli uomini, in Occidente come in Oriente.

Perché la scrittura delle poesie si accompagna spesso a un senso di vergogna? Lei si è mai vergognato di qualcosa che ha scritto? 
Scrivo poesie da quando ero un adolescente, prima che regista mi sento un poeta. Allora, come ora, mi domandavo se quello che scrivevo sarebbe mai riuscito a cambiare qualcosa nel mondo. Ho cominciato a scrivere all’inizio degli anni ’80, quando in Corea c’era il governo militare. La vita era molto difficile e piena di sacrifici, io scrivevo poesie e romanzi ma mi sentivo inutile. Per quanto facessi, non potevo cambiare quella brutta realtà che mi circondava. Di questo, sì, di questo mi vergognavo.



Poetry



















Secret Sunshine












































































































10 febbraio, "Tomboy" di Céline Sciamma


Tomboy
di Céline Sciamma


Con Zoé Héran e Malonn Lévana
Francia, 2011
Durata: 84’
Drammatico


Laure, 10 anni, è appena arrivata in un nuovo quartiere di Parigi e per gioco decide di presentarsi ai nuovi amici come se fosse un maschio, Mickaël: L'inizio della scuola però è dietro l'angolo e il gioco dei travestimenti si complica, tanto più che i genitori sono all'oscuro di tutto...



Visioni fluide, magnetiche, sempre in divenire…si ricomincia ancora dagli “elementi” nel cinema di Céline Sciamma. E all’acqua cuore pulsante del bellissimo esordio Naissance de Pieuvres si sostituisce l’aria in questo Tomboy, con la soggettiva aerea della piccola Laure colta nel momento fatidico del viaggio. Nuova casa, nuovi amici, nuove scoperte, ma la regista francese continua a lavorare sui corpi dei suoi giovani protagonisti: li insegue e li incastona nel loro fragile incedere emotivo; li avvicina e li rispetta nel loro delicato pudore adolescenziale; li avvolge e li denuda nel loro frastagliato percorso di crescita. Ecco che un tema così straordinariamente complesso come la ricerca della propria identità sessuale, viene letteralmente sciolto in quella spontaneità di movimento che solo i bambini sanno restituire: naturalmente Laure si presenta (a noi e) alla futura amica Louise come Mickaël. Tutto diventa naturale: ci sono due ambienti e due ambiti sociali, la famiglia e il gruppo, Laure e Mickaël. Ma questi timidi universi in (dis)equilibrio non cozzeranno mai bruscamente, specchiandosi e (ri)conoscendosi per la prima volta davanti ai nostri occhi. La ricerca di un’identità passa sempre attraverso l’accettazione del proprio corpo e del proprio “essere” nel mondo, in una delle età più violente dell’esistenza: quella pre-adolescenza così tanto cinematografica e forse per questo tenuta spesso a margine dall’adulto cinema.
(Pietro Masciullo, da Sentieri Selvaggi)








17 febbraio, "Terraferma" di Emanuele Crialese


Terraferma
di Emanuele Crialese


Con Donatella Finocchiaro e Filippo Pucillo
Italia/Francia, 2011
Durata: 88’
Drammatico


In un'isola di pescatori alle prese con gli arrivi dei clandestini e la regola nuova del respingimento, una famiglia decide di dare asilo a Sara, suo figlio e la bambina che sta per nascere. Una decisione difficile, che segnerà la loro vita.





La Terraferma del titolo è il punto di contatto tra l'altrove rappresentato da un manipolo di disperati provenienti dall'Etiopia via Tripoli, pescati in mare dal peschereccio del vecchio Ernesto, e il presente non facile di Giulietta e Filippo, rispettivamente nuora e nipote del vecchio pescatore. (…) Crialese scrive tutto con precisione ampia e risonante, lasciando che lo spazio dei luoghi e il tempo delle figure si facciano carico di illustrare le dimensioni della tragedia in atto, rifuggendo da ogni tentazione cronachistica e politica, ma trattando la materia come argomento antico e, proprio per questo, urgentemente presente. Il dissidio che si anima nel cuore del giovane Filippo è quello tra la volgarità di un oggi che mercifica luoghi e corpi e la necessaria nobiltà di un tempo eterno cui appartiene l'Umanità, con le sue regole di solidarietà e sopravvivenza. Terraferma è un film nobile e semplice, molto più immediato e meno simbolico nei segni e nella scansione narrativa di quanto fossero sia Respiro che Nuovomondo. In questa sua semplicità, ad ogni modo, il film sa trovare una cifra espressiva piena e concreta, fatta di realismo e idealità che prendono forma nelle immagini e anche nella recitazione ricalcata e piena degli interpreti: Donatella Finocchiaro è Giulietta, la madre che guarda con limpidezza e coraggio le prospettive che le si aprono davanti; di fronte a lei c'è Sara, che è interpretata da Tinmit T., non un'attrice, ma una vera profuga che ha vissuto veramente anni addietro un'esperienza simile a quella del suo personaggio e che ora vive, felicemente integrata nel nostro paese.
(Massimo Causo da Il Corriere del Giorno del 7/9/2011)



Importante, necessario, durissimo, tagliente eppure delicato Terraferma; come sempre nel percorso del giovane regista che fin da Respiro o Nuovomondo racconta di mare, di uomini e di mondi che si incontrano, con un tocco leggero che riesce ad affrontare la crudeltà della vita, l’inconciliabilità delle posizioni, mettendo sempre a fuoco in maniera lucida il suo punto di vista. (…) Chiamatela Lampedusa, Linosa o quel che vi pare, la terra di confine è luogo ideale di racconto per un regista che sa interpretare il viaggio, mentale, fisico, spirituale. ancora una volta chi arriva e chi è partito si scontrano, si osservano, si guardano, infine si capiscono. In mezzo c’è il mare, ci siamo tutti in mezzo al mare disegnato da Crialese, che questa volta solo per qualche attimo - delizioso - ci regala le sue immagini oniriche, ci fa viaggiare con la fantasia ancor prima che con gli occhi. Quando questo viaggio si interrompe quel che vediamo non sarà sempre piacevole, con divise di ordinanza troppo lontane dal senso vero della 'legge', troppo lontane dalla legge del mare e da quella della coscienza. Occhi di donne si incontrano sulle coste di un'Italia molto più vicina a quella Primavera Araba di quanto i giornali e la Tv riescano a raccontare. Ci prova un film coraggioso ed importante, una storia in cui si sente il rumore del mare e il battito di un cuore...
(Rocco Giurato, da 35mm.it)