Cinecircolo Casalini



Stagione Cinematografica 2015

(Clicca sui titoli per accedere alle pagine dei film)


26 febbraio
di Roman Polanski
Spettacoli ore 18.00 e ore 21.00

5 marzo
di François Ozon
Spettacoli ore 18.00 e ore 21.00

12 marzo
di Sydney Sibilia
Spettacoli ore 18.00 e ore 21.00

19 marzo
(america&musica)
di Joel e Ethan Coen
Spettacoli ore 18.00 e ore 21.00

26 marzo
OffiCinema:
(america&musica)
Ore 18.00 e ore 21.00

9 aprile
OffiCinema:
(america&musica)
Ore 18.00 e ore 21.00

16 aprile
di Daniele Ciprì
Spettacoli ore 18.00 e ore 21.00

23 aprile
OffiCinema: 
Ore 18.00 e ore 21.00

30 aprile
OffiCinema:
Ore 18.00 e ore 21.00

7 maggio
OffiCinema:
Ore 20.00

14 maggio
OffiCinema:
Ore 20.00

21 maggio
OffiCinema:
Ore 20.00


Cinecircolo Casalini
Sala Chaplin, Via Plateja 142 – Taranto

aderente al Centro Studi Cinematografici

Quota sociale:
Adulti € 25.00 - Studenti € 20.00

Tutte le proiezioni avranno luogo di giovedì

Il programma potrà subire delle variazioni 
per cause di forza maggiore

26 febbraio








Venere in pelliccia
di Roman Polanski
con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric

Fr. 2013 - 96'




Thomas, regista teatrale, sottopone ad audizione la giovane Vanda per il ruolo da protagonista nel suo adattamento dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoc Venere in pelliccia. La ragazza, apparentemente inesperta e volgare, si dimostrerà scaltra e con le idee molto chiare sul ruolo, in grado perciò di dare molto filo da torcere al nevrotico regista.






Tratto da un testo teatrale di David Ives, a sua volta ispirato al romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, e tutto girato in un teatro, di sé il film di Roman Polanski mostra subito la dimensione dell'eros masochistico, insieme con quella non meno erotica del gioco tra il narcisismo del regista e quello dell'attore. In questo gioco, ancora, si innesta la logica del potere che l'uomo pretende di esercitare sulla donna.  











Intervista a Roman Polanski

In che modo ha scoperto il lavoro di David Ives, ispirato al romanzo di Sacher-Masoch?
Grazie al mio agente, Jeff Berg. L'anno scorso a Cannes, dove mi trovavo per assistere alla proiezione della versione restaurata di Tess, mi ha consegnato la sceneggiatura di Venere in pelliccia e mi ha detto: "È perfetta per te!". Non avevo molto da fare e così sono salito nella mia stanza e ho iniziato a leggerla e… ho pensato: "Sì, mi piace!". Il testo era così divertente che mi sono ritrovato a ridere da solo, il che è piuttosto raro. L'ironia della pièce, che talvolta sfiora il sarcasmo, era irresistibile. Mi è piaciuto anche l'elemento femminista e ho voluto immediatamente farne un film. Per prima cosa c'era un ruolo magnifico per Emmanuelle, e da tempo parlavamo di tornare a lavorare insieme, poi un bellissimo ruolo maschile. Ho immaginato subito di ambientarlo in un teatro vuoto, forse perché ho un background teatrale. Un teatro crea un'altra dimensione, una certa atmosfera...



Dopo Carnage, di Yasmina Reza, questo è il suo secondo adattamento di un lavoro teatrale e il suo primo film in francese...
Non prendo mai in considerazione questi aspetti, è stato il soggetto che mi ha ispirato. E un'altra cosa: ci sono solo due personaggi. Fin dal mio primo film (Il coltello nell'acqua, 1962) in cui ne erano presenti solo tre, mi sono detto: "Un giorno realizzerò un film con solo due personaggi!". È una vera sfida, ma una sfida che mi dà ispirazione, perché presenta degli ostacoli… altrimenti mi annoio. La sfida era trovarsi in un unico ambiente con due personaggi senza mai annoiare gli spettatori, senza che apparisse teatro ripreso per la televisione. Davvero interessante, soprattutto ora, perché andare al cinema significa ritrovarsi bombardati dalle immagini e dal sonoro. Realizzare i trailer è la parte più difficile! Ce ne sono alcuni che concentrano la violenza di un intero film: decine di esplosioni, decine di macchine che saltano e tra una ripresa e l'altra sempre lo stesso sonoro, come se fosse l'unico che possiedono nel loro repertorio...

Può parlarci di come ha lavorato all'adattamento con David Ives?
Per prima cosa abbiamo tagliato i dialoghi e apportato dei cambiamenti ad alcune scene. Il nostro scopo era trasformarlo realmente in un film. Nel lavoro teatrale tutto avviene in una sala per audizioni, abbastanza impersonale. Invece in Francia, in particolare nei teatri privati, dove non ci sono compagnie stabili, le audizioni si tengono spesso sul palco. Quindi il mio primo pensiero è stato di ambientare l'azione in un teatro. Trovarsi in un teatro cambia tutto, fin dall'inizio! Potersi muovere tra il palco e la platea, per non parlare dello spazio dietro le quinte, offre tantissime opportunità. Il nostro lavoro è stato molto attento ai particolari, anche se, durante le riprese, ho cambiato alcune situazioni e improvvisato dei movimenti.

Le è familiare il mondo di Sacher-Masoch?
No, niente affatto!

È un mondo che la attrae?
Per niente! In un certo senso lo trovo buffo. Un amico mi ha fatto vedere alcuni film pornografici giapponesi sadomaso. Folli! Al punto da essere lievemente terrorizzanti. Non avevo idea che così tanta gente potesse essere appassionata di questo tipo di cose. Intravedo un parallelismo con il punk e il gotico: c'è qualcosa di innaturale, fatto per impressionare gli altri o per seguire una moda. Penso che alcuni lo facciano per sentirsi parte di un gruppo, per essere come gli altri punk o gotici, piuttosto che per il piacere di bucarsi le guance o indossare abiti scomodi.
Nel sadomasochismo c'è qualcosa di non molto diverso dal teatro: diventi regista delle tue fantasie, interpreti un ruolo, diventi un’altra persona… Il film gioca con questa teatralità, un lavoro teatrale all'interno di un lavoro teatrale: dove dominazione e sottomissione, teatro e vita reale, personaggi, realtà e fantasia si incontrano, si scambiano di posto e confondono le linee di confine…
Nel film, l'attrice dice: "Nuda sulla scena? Non c'è problema. Lo farò per te senza problemi. E poi il sadomasochismo mi è familiare, lavoro in teatro!".

Pensa che i rapporti tra registi e attori siano sadomasochisti?
Certo, ma il film ironizza su questo aspetto. È una delle battute scritte da David Ives che mi ha fatto ridere e mi ha fatto venire voglia di adattare il suo lavoro. È stato divertente ed eccitante trovare un registro diverso per ogni situazione, un linguaggio diverso, un gioco diverso, soprattutto per il personaggio interpretato da Emmanuelle. Sicuramente il personaggio di Mathieu Amalric vive meno cambiamenti, ma le differenze sono più sottili.

A quale personaggio si sente più vicino?
A nessuno dei due! Anche se... il mio lavoro mi posiziona più vicino al personaggio del regista ovviamente, ma non a questo! Spero di non aver mai commesso quel tipo di errore! Se avessi adattato io stesso Sacher-Masoch e lo avessi diretto… non credo che sarei stato intrappolato da una donna come quella. Mi piace quando il regista dice: "Ho intenzione di usare la Lyric Suite di Alban Berg per i passaggi", e lei dice "è una splendida idea!" e lui, sorpreso, le chiede se la conosca e lei risponde "no". Adoro questo tipo di momenti.

Quale dei punti di forza di Emmanuelle Seigner l'hanno resa particolarmente adatta a interpretare questo ruolo?
La sua fisicità, l'immagine che proietta e la sua abilità nel passare da un'emozione all'altra... Pensavo che il personaggio dell'attrice sarebbe stato molto facile per lei da interpretare, ma durante le riprese mi sono reso conto che era l'altro personaggio – il personaggio del libro di Masoch, Vanda von Dunajev – che le veniva molto più facilmente, anche se non ha mai avuto problemi con nessuno dei due. Passava dall'uno all'altro con grande naturalezza e riusciva a modificare la voce, l'accento, l'atteggiamento e la fisicità – due corpi diversi – senza problemi.

Cosa dice di Mathieu Amalric?
È un grande attore e anche un regista, quindi capisce molte cose e tante situazioni. È talentuoso, intelligente e ha l'età giusta. Tutto quello che era necessario per interpretare la parte con successo! Pochi altri attori sarebbero stati capaci di fare ciò che ha fatto lui, e con altrettanta finezza.

La cosa che colpisce di più in questo film è quanto le assomiglia. Fa tornare in mente il suo personaggio in Per favore, non mordermi sul collo! e L'inquilino del terzo piano. È stato intenzionale?
È possibile che lui abbia deciso in questo senso, ma non è stata una mia decisione. All'inizio non me ne ero neppure accorto. Anche se la prima volta che ci siamo incontrati (grazie a Steven Spielberg che ci ha presentati mentre stavano girando Munich) Mathieu mi ha rivelato che spesso gli dicevano che mi assomigliava molto.

Colpisce anche quanto questo film ricordi altri suoi lavori, da Per favore, non mordermi sul collo! a Luna di fiele e L'inquilino del terzo piano, non solo per la situazione claustrofobica, ma anche per l’atmosfera e i temi.
Neppure di questo mi ero accorto. In un film come questo, semplice, non troppo costoso e completamente sotto il controllo del regista, non ci sono vincoli, si ha piena libertà. Quindi non deve sorprendere che i "vecchi fantasmi" o i "vecchi demoni" tornino a ossessionarti… A essere sinceri non ci avevo pensato. Semplicemente mi è piaciuto il testo e ho realizzato il film come l'ho visualizzato. È stata una magnifica avventura per tutti quelli che sono stati sul set, una produzione davvero piacevole.
Siamo stati molto fortunati. Ogni volta che volevamo qualcosa che era difficile da ottenere riuscivamo ad averla! Tutto sembrava cospirare a favore della realizzazione del film. Il colpo di fortuna più grande è stato trovare un teatro dove costruire un set grande abbastanza per le nostre necessità. Il primo posto cui ho pensato mentre leggevo la sceneggiatura è stato il Théâtre Hébertot – non quello restaurato di recente, ma quello un po’ più lasciato andare, dove ho messo insieme Doubt (nel 2006) -. Cercavamo un teatro e alla fine ci è venuto in mente il vecchio Théâtre Récamier, che era chiuso da tanto tempo, ed è uno spazio vuoto, ma con la zona della platea e i resti di un palco. Jean Rabasse, il nostro scenografo, ha ricostruito ogni cosa, dal palco, ai posti a sedere, al backstage. Alla fine del suo lavoro eravamo in un vero e proprio teatro! Dopo cinque settimane di prove siamo stati in grado di girare il film in ordine cronologico. È stata un'opportunità straordinaria e sarebbe stato un peccato perderla.

La messa in scena è molto rigorosa ed estremamente fluida...
Si impara sempre qualcosa nel corso degli anni!

Quante macchine da presa ha usato?
Solo una. Per me, e soprattutto per questo film, c'è solo un "miglior punto di vista". Potrebbero essercene altri, alcuni buoni, ma solo uno è il migliore! Io giro dalla mia prospettiva, seguendo quello che vorrei vedere con la macchina da presa. Comunque uso sempre gli attori per bloccare le scene, preferisco che le cose vengano da loro piuttosto che da me. Non puoi fissarti su qualche idea di regia e poi cercare di passarla agli attori. Sarebbe come avere un completo di ottimo taglio e poi cercare di farci entrare qualcun altro! E a un certo punto della storia è l'attrice che sceglie il suo posto sulla scena. Quando giro succede qualcosa di simile. Inizio provando con gli attori e poi mi domando come filmarli. La macchina da presa racconta la storia di quello che vedo. Per questo uso solo una macchina. E poi con questo tipo di soggetto la seconda macchina finirebbe nella prima inquadratura!

Ha lavorato ancora una volta con Pawel Edelman. Cosa cerca in un direttore della fotografia?
Deve capire esattamente cosa voglio vedere. Con Pawel, non c'è quasi bisogno di parlare; lui sa quanto voglio realizzare rapidamente il film. Posso dire la stessa cosa per Alexandre (Desplat, il compositore). Tutti e due sono diventati miei ottimi amici e colleghi eccezionali che capiscono e anticipano le mie idee e le sviluppano.

C’è molta musica in Venere in pelliccia che si contrappone alle situazioni, aggiunge fantasia, humour, ironia e una certa leggerezza.
L’unica cosa che ho detto ad Alexandre era che volevo molta musica. Lui ha letto la sceneggiatura e ha avanzato qualche suggerimento, esattamente nello spirito che volevo io. È così. Semplice. Lo stesso è successo con Pawel. All’inizio del film tutto quello che volevo era l’atmosfera di un teatro cadente, girato realisticamente e da qui muoversi progressivamente verso la fantasia e l’immaginazione.

Dopo la scena della telefonata nel backstage, capiamo che il film è arrivato a un momento cruciale. La luce è diversa. Il personaggio di Emanuelle Seigner non è più lo stesso. Sembra quasi di entrare in un sogno...
Mi piace sviluppare gradualmente l'ambiguità. Anche mentre stavamo lavorando all'adattamento, con David Ives, volevamo accrescere quel senso di allontanamento dalla realtà, senza che lo spettatore se ne rendesse conto. E abbiamo continuato nello stesso spirito durante le riprese. Battute come: "È Venere che arriva per prendere la sua testa", che giriamo letteralmente, ci sono per turbare lo spettatore.

La danza finale è una sorta di climax di questa progressione, di questa ambiguità...
L'idea mi è venuta abbastanza tardi. Sapevo l’atmosfera che volevo, ma non riuscivo a trovare il modo per comunicarla, come creare la sensazione che stavo cercando. E poi ho avuto l’idea di questa danza, ispirata all'antica Grecia, come la musica.

Anche il cactus sul set ricorda una colonna greca!
Sì… Tutto inizia con una versione musicale di Ombre rosse!
Con David cercavamo un titolo che fosse il più possibile lontano da Sacher-Masoch. Qualcosa che sarebbe stato sicuramente un flop e avrebbe lasciato libero il teatro per il nostro Thomas Novachek. E avevamo bisogno di un totem cui potessimo legare Thomas. Ci siamo scambiati una serie di idee e abbiamo riso molto. Un giorno ho pensato a una specie di western, e da qui è nata l'idea di un adattamento musicale del film di John Ford. Per la scena in questione, il mio primo pensiero è stato il totem. Jean (Rabasse), che ha progettato un set ispirato alla Monument Valley, mi ha suggerito varie cose, tra cui i cactus. Mi sono piaciuti subito i suoi cactus: è stata un’idea davvero divertente!

Lei ha letto Venere in pelliccia a Cannes l'anno scorso ed è tornato esattamente un anno dopo in concorso: è raro che le cose vadano così rapidamente.
Sì, è folle. Ci sono film come questo in cui tutto funziona. Gli attori e i tecnici sono stati eccezionali ed è soprattutto grazie a loro se siamo riusciti a finire il film in così poco tempo. Ma abbiamo lavorato duro! E poi abbiamo lavorato duro al montaggio!

Se potesse conservare un'unica immagine dell'avventura di Venere in pelliccia, quale sarebbe?
La scena dell'audizione, ovviamente!

(Simona Santoni, da “Panorama”)





5 marzo








Giovane e bella
di François Ozon
con Marine Vacth, Géraldine Pailhas 
Fr. 2013 - 94'



Isabelle, studentessa diciassettenne, dopo aver perso la verginità durante le vacanze estive, decide di prostituirsi diventando una squillo d'alto bordo sotto lo pseudonimo di Léa, il nome della nonna materna. Durante un incontro con uno dei suoi clienti, accadrà un fatto che cambierà inesorabilmente la sua vita.




François Ozon torna a suddividere una propria opera in capitoli così come aveva fatto per 5x2. Questa volta non segue cronologicamente al contrario il progressivo deteriorarsi di una coppia. Sono le stagioni, con il loro procedere dall'estate alla primavera, che segnano qui il passaggio all'età adulta di Isabelle. Per questa indagine, in cui mostra di possedere un'acuta capacità di indagine socio-psicologica, utilizza un elemento della cultura che molti ritengono (spesso a torto) 'bassa': la canzone della cosiddetta musica leggera.




François Ozon. Nato e cresciuto a Parigi, figlio di René Ozon, professore di biologia, e Anne-Marie Ozon, insegnante, ha un fratello, Guillaume, e una sorella di nome Julie. Da giovane inizia a lavorare come modello,[1] ma ben presto si appassiona alla settima arte, si laurea in storia del cinema nel 1993 alla scuola di cinema La Fémis, in quegli anni inizia a realizzare un elevato numero di cortometraggi, fino al 1998, quando debutta con il suo primo lungometraggio. Sitcom - La famiglia è simpatica, film da toni grotteschi, lo pone all'attenzione come uno dei più interessanti tra i nuovi autori del cinema francese. La sua fama si consolida grazie a pellicole come Amanti criminali e Gocce d'acqua su pietre roventi, quest'ultima basata su un'opera scritta da Rainer Werner Fassbinder dal titolo Tropfen auf heisse Steine.
Nel 2000 dirige Sotto la sabbia, primo film della cosiddetta Trilogia del Lutto, che continua nel 2005 con la pellicola Il tempo che resta e si conclude nel 2009 con Il rifugio. Ma il successo internazionale arriva nel 2002 con 8 donne e un mistero, dove raduna diverse generazioni di attrici francesi, tra cui Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen, e grazie ad un miscela di diversi generi, che vanno dalla commedia, passando al giallo e al musical, fino al melodramma, Ozon confeziona uno dei suoi film più noti al grande pubblico.
Nel 2007 dirige Angel - La vita, il romanzo, prima produzione girata in lingua inglese, pellicola dalle ambientazione ottocentesche in cui affida il ruolo da protagonista all'attrice britannica Romola Garai. Nel 2009, invece, dirige la fiaba Ricky - Una storia d'amore e libertà, presentato alla 59ª edizione del Festival di Berlino.
Nel 2010 torna a dirigere Catherine Deneuve in Potiche - La bella statuina con Gérard Depardieu e Fabrice Luchini: il film, candidato al Premio Magritte, viene presentato alla 67ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Ozon è apertamente gay,[2][3] e i suoi film sono spesso caratterizzati da persone e storie LGBT.












12 marzo





Smetto quando voglio
di Sydney Sibilia
con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi


It. 2014 - 100'



Pietro Zinni non si vede rinnovare l'assegno di ricerca universitaria da una commissione incompetente. Decide così di sintetizzare una droga non catalogata dal Ministero della Salute e per questo perfettamente legale. Con l'aiuto di alcuni coetanei intelligenti e preparati, ma, come lui, ridotti a lavori precari, inizia un fiorente spaccio della sostanza. Ma la cosa prenderà loro la mano...




Nell’esordio dietro la macchina da presa del giovane salernitano Sydney Sibilia c’è un po’ di tutto. Dai classici come La banda degli onesti di Mastrocinque fino a fenomeni contemporanei come la fortunatissima serie evento Breaking Bad, Smetto quando voglio si conferma sin dai primi fotogrammi un’opera prima sinceramente divertente, capace, con intelligenza, di giocare con le citazioni e una comicità elaborata che molto deve all’esperimento Boris (in televisione e al cinema).






Il regista. Sydney Sibilia inizia a realizzare cortometraggi insieme all'amico Fabio Ferro nella loro nativa Salerno. Nel 2005 vincono molti concorsi con Iris Blu. Nel 2007 si trasferisce a Roma e successivamente realizza altri due cortometraggi di successo, Noemi (2007)[1] e Oggi gira così (2010)[2], quest'ultimo prodotto dalla Ascent Film e scritto insieme a Valerio Attanasio. Sempre con Valerio Attanasio, scrive la sceneggiatura della sua opera prima Smetto quando voglio. Il film, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci, dalla Ascent Film di Matteo Rovere e da Rai Cinema, viene distribuito nelle sale cinematografiche nel febbraio 2014[3][4], riscuotendo un successo sorprendente e ottenendo 12 candidature ai David di Donatello.














19 marzo





america & musica



A proposito di Davis 
di Joel e Ethan Coen 
con Oscar Isaac, Justin Timberlake, John Goodman, Adam Driver 
Usa, 2013 - 105'





New York 1961. Llewyn Davis è a un bivio. La musica non riesce a dargli da vivere e i problemi personali incalzano. Sopravvive solo grazie all'aiuto di qualche amico o sconosciuto, accettando piccoli lavoretti. Le sue disavventure lo portano un giorno in un deserto Chicago Club per un’audizione di fronte a Bud Grossman…




Un concentrato di emozioni, filtrate dal talento autoriale e pregne del grottesco tipico del loro cinema. Le risate, le bizzarre espressioni dei personaggi, le atmosfere ipnotiche e i movimenti di macchina costantemente pieni di idee sono garantiti in A proposito di Davis, il nuovo lavoro dei Fratelli Coen.










26 marzo

OffiCinema: 
america & musica
Omaggio a  Violeta Parra



Il secondo appuntamento di OffiCinema con il ciclo "america&musica" è dedicato a Violeta Parra, cantautrice, poetessa e pittrice cilena che sta nel cuore della cultura latinoamericana con almeno una canzone, la celebre "Gracias a la vida, Que me ha dado tanto". A lei è stato dedicato un film biografico di grande successo.





Violeta Parra è stata una donna generosa, geniale ed inquieta. Di carattere soggetto ad allegrie irresistibili e a terribili depressioni improvvise, ha sempre avuto chiaro quale fosse il compito che si era prefisso. Del folklore diceva: "Non lo intendo come una sopravvivenza archeologica isolata che si sviluppa come cultura dominata nei confronti di una cultura dominante, ma come un fenomeno culturale vivo che corrisponde a determinate forme sociali e che si trasforma o si annulla in funzione di tale corrispondenza".
"Gracias a la vida" è la canzone per la quale diviene nota in tutto il mondo. Tradotta in molte lingue è senza dubbio uno delle più celebri canzoni latino americane. Ne esiste anche una versione italiana, cantata da Gabriella Ferri, che è unita a Violeta Parra anche per il tragico destino finale della propria vita, e cioè la scelta del suicidio.
La biografia di Violeta Parra è costellata da molti eventi da ricordare e da un finale appunto oscuro. Nasce il 4 Ottobre 1917 a San Carlos, nel sud-est del Cile. Fin da bambina si avvia alla composizione, tuttavia senza accostarsi a scuole o conservatori. Senza dubbio importante è stata in questa prima fase l’influenza del padre, maestro di musica. Non rinnegherà mai le proprie umili tradizioni musicali, anzi diventerà un vessillo della ricerca e del mantenimento della cultura musicale e popolare cilena. Per sopravvivere svolge i lavori più disparati, tra cui cucinare frittelle, lavorare in un circo. Nel frattempo da anche lezioni di cueca, il ballo nazionale cileno. Contemporaneamente si dedica anche ad altre attività artistiche, come la ceramica e la tappezzeria. I suoi quadri su iuta sono stati esposti tra l'altro anche al museo del Louvre.
Dal matrimonio col ferroviere Luis Cerneda verranno al mondo Isabel e Angel, che contribuiranno negli anni a sviluppare il lavoro già iniziato e tracciato dalla madre in ambito musicale. A partire dal 1954 inizierà a viaggiare anche molto per il mondo, soprattutto nei paesi dell’Est Europa, dopo essersi avvicinata al partito comunista cileno. Tragica è la sua morte: il 5 febbraio 1967 decide di porre fine ai suoi giorni dentro ad un teatro. Si sono spese molte interpretazioni per spiegare il gesto: c’è chi sostiene che Violeta soffrisse per motivi di lavoro, c’è chi dice che non si sentiva pronta a lottare nel nuovo clima di fervore rivoluzionario che precedeva il ’68, c’è chi sostiene che fosse l’amore tormentato per l’antropologo svizzero Gilbert Favre a provocarle angustia di vivere.

(da “Cultiralatina.it”)




Un gioiellino raro questo Violeta Parra went to heaven del regista cileno Andrés Wood sulla grande artista cilena morta suicida nel 1967, e in uscita il 4 luglio nei cinema in Italia. L'abilità, o forse la fortuna, di Wood è stata quella di trovare una interprete eccezionale per il ruolo di protagonista. L'attrice Francisca Gavilàn è infatti una straordinaria Violeta, le somiglia moltissimo, suona e canta tutte le canzoni della colonna sonora. Il film, che si avvale anche dell'eccellente fotografia (in bianco e nero e a colori) di Miguel Ioan Littin (figlio di uno dei più noti registi cileni), utilizza come filo conduttore un'intervista che lei concesse alla tv argentina nel 1962. E ne ricostruisce la vita basandosi sulla biografia che di Violeta Parra scrisse il figlio Angel. Dai viaggi attraverso il Cile alla ricerca di vecchie canzoni della cultura popolare orale che altrimenti sarebbero andate perdute; ai lunghi soggiorni in Europa (Polonia e Francia) che la renderanno famosa con l'esposizione dei suoi dipinti e dei suoi arazzi al Museo del Louvre; fino al teatro-tenda che costruì ai piedi delle Ande, fuori Santiago, e che nei suoi progetti doveva diventare l'Università del Folklore.
Il film di Andrés Wood con Francisca Gavilan nel ruolo di Violeta Parra, cantante, poetessa e pittrice cilena scomparsa nel 1967 alla quale si deve un'importante opera di recupero e diffusione della tradizione popolare del Cile in chiave di denuncia e la protesta per le ingiustizie sociali. Il film, del quale Repubblica.it vi propone questa clip in anteprima, è tratto dal libro "Violeta Parra è andata in cielo" di Angel Parra, figlio dell'artista.
Musicista, cantante, cantautrice (è sua l'indimenticabile Gracias a la vida), poetessa, pittrice, scultrice, Violeta Parra è un'icona della cultura popolare sudamericana. Nel film il regista Andrés Wood si concentra soprattutto sul personaggio più privato. Gli amori, i mariti, i tre figli, le passioni, le illusioni e i drammi, fino all'amore per il flautista e ricercatore svizzero Gilbert Favre che la porterà al suicidio. Uno sguardo molto intimo, epico e struggente, che - ha sottolineato qualche critico - forse sorvola un po' troppo sul contesto. Dalle battaglie politiche della Violeta comunista, incompresa e combattuta in Cile; all'influenza decisiva, sulla sua formazione, di suo fratello Nicanor, a sua volta grande poeta e intellettuale; all'ultima stagione della sua vita, quando insieme alla fine della sua relazione con Favre, Violeta soffrirà del disinteresse del Cile di allora per la sua creatività e il suo genio.
Ma grazie alla recitazione di Francisca Gavilan il film di Wood riesce a disegnare una bellissima Violeta: volitiva, appassionata, tormentata. Il figlio Angel Parra ha raccontato di essere stato costretto più di una volta ad abbandonare il set delle riprese emozionato fino alle lacrime perché nel volto di Francisca vedeva rivivere sua madre. Ed è questo forse il complimento più bello per un film che ha voluto resuscitare un mito tanto universale quanto, a suo modo, ignoto. Uscito nel 2011, Violeta Parra went to heaven ha già ottenuto un grande successo di pubblico ed è stato candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2012. D'altra parte Andrés Wood non è, per la cinematografia latinoamericana, uno sconosciuto. È sua una delle opere più intense e apprezzate sugli anni di Allende e Pinochet: Machuca (girato nel 2004), che racconta con grande tenerezza la vita di due ragazzini in Cile alla vigilia del colpo di Stato del 1973.

(da “Repubblica.it”)

















9 aprile

OffiCinema: 
america & musica
Omaggio a Clint Eastwood


Il terzo incontro di OffiCInema dedicato a "america&musica" non poteva essere che per Clint Eastwood, che col suo penultimo film, Jersey Boys, ha dedicato al "grande paese" un ennesimo ritratto musicale attraverso la storia (in musical) di Frankie Valli e della sua celebre band. 






Da qualche parte nel mondo esiste sicuramente un ritratto di Clint Eastwood che invecchia al posto del diretto interessato: non si spiega altrimenti come un signore di 84 anni riesca a sfornare un film dietro l’altro non perdendo, quasi mai, colpi, mettendosi costantemente in gioco e sperimentando ogni volta generi differenti tra loro. Dopo i fasti da star del cinema vissuti grazie ai film di Sergio Leone, dal 1971, con Brivido nella notte, il californiano dagli occhi di ghiaccio Eastwood è passato dietro la macchina da presa e da allora non si è più fermato: 37 le pellicole girate fino a oggi, l’ultima delle quali è American Sniper con protagonista Bradley Cooper, in uscita il prossimo anno. Prima di vedere Cooper nei panni di un militare della marina americana, tocca però a Frankie Valli e ai suoi The Four Seasons far scoprire al pubblico l’ennesima scommessa riuscita di Eastwood con Jersey Boys.
New Jersey, primi anni 50: Francesco Castelluccio (John Lloyd Young), è un giovane apprendista barbiere italoamericano, con il mito di Frank Sinatra e la passione per il canto; Tommy DeVito (Vincent Piazza) è un criminale pieno di intraprendenza e voglia di vivere: amici fin da ragazzi, i due, insieme alla conoscenza comune Nick Massi (Michael Lomenda), mettono su un gruppo, i Four Lovers, supportati dal gangster locale Gyp DeCarlo (Christopher Walken), boss con un debole per le belle voci. Destreggiandosi tra un colpo e un’uscita di galera, i tre riescono a distinguersi dal resto della scena musicale locale quando incontrano, seguendo il consiglio della futura star del cinema Joe Pesci, Bob Gaudio (Eric Bergen), pianista e compositore. Grazie alla particolarissima voce di Frankie, che si ribattezza Valli, e all’estro di Bob, il gruppo, che ora si fa chiamare The Four Seasons, riesce a entrare in contatto con il produttore Bob Crewe (Mike Doyle) e a solcare la porta del tempio della musica americana di quegli anni, il Brill Building di New York, trampolino di lancio per il loro grande successo.
Criminalità, provincia americana, musica, passione e voglia di sfondare: l’ambientazione di Jersey Boys sembra toccare molte corde del cinema di Martin Scorsese, con i personaggi che parlano direttamente allo spettatore, la musica travolgente e la realtà quotidiana di chi vive la strada pericolosamente. Jersey Boys non è però una versione musical di Quei bravi ragazzi: trovando il giusto equilibrio tra la biografia, il film musicale, la commedia e momenti più drammatici, Eastwood confeziona una pellicola che affronta più generi, tutti accomunati dal ritmo travolgente e dal potere universale della musica. Autore in grado di affrontare generi agli antipodi, dal film di guerra come Lettere da Iwo Jima (2006), a pellicole sulla boxe come Million Dollar Baby (2004), passando per il romantico I ponti di Madison County (1995) fino al tuffo nel soprannaturale di Hereafter (2010), con Jersey Boys Eastwood non si limita al semplice biopic, come già accaduto per Invictus (2009), storia di Nelson Mandela, e J. Edgar (2011), in cui ha parlato del fondatore dell’FBI, ma mette il cinema e i suoi mezzi espressivi al servizio della musica. Da sempre grande appassionato di musica, soprattutto di jazz, Eastwood è stato il musicista country protagonista del suo Honkytonk Man (1981), ha raccontato la storia del sassofonista Charlie Parker in Bird (1988), diretto uno dei frammenti della serie di documentari Blues (2003), progetto voluto da Martin Scorsese, e composto le musiche di molti dei suoi film, come Mystic River (2003) e Gran Torino (2008): non stupisce dunque che il regista californiano abbia voluto raccontare la storia di un gruppo che ha fatto la storia della musica americana.
Affrontando la storia con il suo inconfondibile stile classico, ma ammorbidendo la durezza cui ci ha abituato nelle sue pellicole più drammatiche, Eastwood usa la voce di Valli e dei suoi amici per raccontare un percorso di riscatto personale e desiderio di rivalsa, non facendo l’elogio spassionato di questi artisti (fatto non scontato se si pensa che tra i produttori esecutivi del film figurano gli stessi Frankie Valli e Bob Gaudio), ma presentandoli come esseri umani normali, con i loro difetti, gli errori e le disgrazie che colpiscono chiunque, benedetti però da un talento fuori dal comune e da una forza di volontà in grado di trasformare anche la peggiore delle sofferenze in qualcosa che diventa meno doloroso grazie alla magia che sono in grado di creare. Canzoni immortali come Big Girls Don’t Cry, Walk Like a Man, Rag Doll, Sherry e Can’t Take My Eyes Off You diventano il faro e lo scopo in grado di riscattare una vita intera, così come lo erano gli incontri sul ring per Frankie Dunn (Hilary Swank) in Million Dollar Baby, il senso di giustizia di Walt Kowalski in Gran Torino e la fede incrollabile nel futuro di Christine Collins (Angelina Jolie) in Changeling (2008): uomini e donne come tutti, in grado però di fare cose straordinarie.
Per raccontare la storia di questi ragazzi del New Jersey, Eastwood ha scelto di ingaggiare il cast originale del musical, aggiungendo al gruppo Vincent Piazza, il Lucky Luciano della serie Boardwalk Empire, nel ruolo di Tommy: una scelta vincente, dato che tutti i protagonisti danno il meglio di sé, sia dal punto di vista recitativo che canoro, essendo stati chiamati anche a cantare in prima persona le canzoni dei Four Seasons. Nota di merito anche per Christopher Walken e Mike Doyle che, nei panni rispettivamente del gangster DeCarlo e del produttore Crewe, offrono i maggiori spunti comici del film. Per quanto riguarda la regia Eastwood sceglie la via della semplicità, facendo parlare la musica, concedendosi però due momenti da maestro: il carrello verticale che ci porta all’interno del Brill Building e ci mostra come in ogni piano dell’edificio stia nascendo un nuovo genere musicale fondamentale, e la scena finale, in cui viene allestito l’unico vero trascinante numero da musical della pellicola.
Anche se non sarà ricordato come uno dei massimi capolavori di Eastwood, Jersey Boys colpisce nel segno e proietta il pubblico negli anni 50, facendogli sentire il calore dei riflettori del palcoscenico e gli odori delle strade del New Jersey, grazie alla mano sicura e inconfondibile del regista e al groove irresistibile della musica di Frankie Valli e soci.
(di Valentina Ariete, da “Repubblica XL”)