13 marzo 2019


Il filo nascosto
di Paul Thomas Anderson








con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps,  Lesley Manville, Joan Brown, Sue Clark

USA 2017 - 130'


Raynolds Woodcock è un rinomato stilista britannico che, insieme alla sorella Cyril, raggiunge l'apice del successo negli anni Cinquanta lavorando per la famiglia reale. Quando incontra Alma, si innamora per la prima volta.




Poche altre volte ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un film talmente chiuso in se stesso da aver paura che anche un respiro più forte del normale, un colpo di tosse possa incrinarne l’equilibrio. Poche volte, pochissime, il cinema ha chiesto allo spettatore un atto di fiducia altrettanto assoluto. Il Reynolds Woodcock di Il filo nascosto ti si mette di fronte senza preoccuparsi di apparire simpatico o affascinante (escluso per la bellezza del suo interprete, Daniel Day-Lewis: ma è un altro discorso) o all’opposto detestabile. Lui non si preoccupa di nient’altro che non sia il suo genio e il suo talento: l’ha capito la sorella Cyril e lo capisce a sue spese Alma, musa modella e, occasionalmente, amante. E lo ribadisce il regista Paul Thomas Anderson, che costruisce un film dove non ci sono porte per entrare o angoli dove ripararsi: solo un percorso obbligato, una «visita guidata» all’interno di un mondo che non ammette discussioni o distinguo. 


Non è la prima volta che Anderson racconta personaggi così assoluti: lo era il Daniel Plainview di Il petroliere, il Lancaster Dodd di The Master e a suo modo lo era anche il Larry Sportello di Vizio di forma. Ma la loro guerra era contro un mondo che li contrastava o li emarginava o li rifiutava. Con Reynolds Woodcock il mondo viene lasciato fuori dalla porta del suo atelier di sartoria: non è lui che deve adeguarsi, sono gli altri che devono pentirsi di inseguire la peggiore delle perversioni, quello di voler essere chic! Difficile resistere alla tentazione di leggere nel protagonista del film non tanto un alter ego di Paul Thomas Anderson quanto l’idealizzazione della figura stessa del regista e del suo contrastato rapporto col pubblico. Con la coscienza, però, che un piccolissimo granello può sempre entrare negli ingranaggi di una macchina perfetta e metterla in crisi. Nel film è l’amore di Alma, non più disposta ad accettare un rapporto solo univoco, di dare e non di avere (e come arriverà a rivendicare questo ruolo prenderà la forma del giallo, o quasi). Nella più generale visione del cinema può essere la lotta contro il livellamento dei gusti e delle forme, contro il predominio dello storytelling sulla bellezza, la scommessa che la propria radicalità registica possa in qualche modo infrangere la marea del’lomologazione e della banalizzazione. Una scommessa azzardata, che Paul Thomas Anderson sembra voler combattere ribaltando la logica delle cose, per via di assurdo. Pronto a rischiare l’accusa di elitarismo e aristocraticità chiuso nel suo universo di bellezza e perfezione. Perché dopo aver visto il film quel che ti resta dentro è la paura di poter «rompere» qualcosa di miracolosamente perfetto se ti avvicini con troppa foga o superficialità. Come maneggiare un lampadario di Murano senza le dovute precauzioni.
Paolo Mereghetti (Il Corriere della Sera)


















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