6 aprile














OffiCinema: 
Omaggio a Ken Loach


Ken Loach, “Sfidare il racconto dei potenti”: 
il cinema può ancora stravolgere lo status quo?

di Davide Turrini


Il cinema può ancora inceppare il congegno, stravolgere lo status quo, “sfidare il racconto dei potenti”. Lo spiega il 78enne regista inglese Ken Loach in un appassionante ed intenso libricino edito da Lindau, scritto in collaborazione con il giornalista Frank Barat: Sfidare il racconto dei potenti. “Facciamo film per cercare di sovvertire, creare disordine e sollevare dubbi”, spiega il pluripremiato regista di capolavori come Ladybird, Ladybird e Piovono Pietre, nel primo capitolo di un istantaneo e ficcante pamphlet dove si fondono arte e vita, cinema e politica, senso di collettività nel lavoro e oppressione del capitale in ogni sua attuale forma neoliberista. “I tentativi artistici nascono inevitabilmente dalle nostre esperienze e dalle nostre percezioni, le quali costituiscono l’unico materiale di lavoro. E’ tutto ciò di cui disponiamo per creare. I problemi cominciano quando ci si mettono di mezzo gli affari, quando l’unico obiettivo diventa la produzione di merce per arrivare a un guadagno. A partire da quel momento la ricerca del profitto impone il contenuto e di conseguenza viene realizzato soltanto ciò che può essere sfruttato commercialmente”.
L’analisi di Loach sul sistema di creazione delle immagini al cinema, come in televisione, è lucido e spietato, un j’accuse che ricorda Indignatevi! di Stephan Hessel, con un unico obiettivo: rigore morale e chiarezza espositiva per ribaltare gli equilibri esistenti in cui ci sono e ci saranno sempre conflitti di classe tra sfruttatori e sfruttati. La storia che raccontiamo e filmiamo, spiega Loach, deve essere “un sassolino che produce tante onde (…) un microcosmo che illustra lo stato generale del mondo, mette in luce il funzionamento della società mostrandone derive e disuguaglianze”. E ancora: “Col tempo le cose non sono cambiate (…). La società è sempre stata basata sul conflitto, una classe contro l’altra. Chi sta al potere non vuole che il popolo combatta contro il suo vero nemico, la classe capitalista, quelli che hanno il controllo della grandi imprese, che dominano finanza e politica”.
Ecco allora arrivare il cinema, il cinema di Ken Loach – quasi una quarantina di film, tra fiction, documentari e corti in quarant’anni di lavoro – quell’utopica forma artistica che mira a cambiare “l’ordine delle cose”: “Affinchè un film sia realmente politico, nel senso di strumento, di mezzo politico, deve esserci coerenza tra la sua sensibilità e il suo contenuto (…) Il punto di vista e le opinioni non dettano i nostri film in modo diretto: li colorano, li guidano nella scelta dei soggetti e delle storie da raccontare”. Ne deriva così un vero e proprio vademecum comunitario e antitradizionale su come si prepara, produce e si gira un film alla Loach: intanto il “produttore deve capire il film, come sarà realizzato e crederci. Intellettualmente ma anche visceralmente”; poi bisogna costruire una “squadra”, “è fondamentale costruirne una compatta non circondarsi dei tecnici più talentuosi” dietro ai quali si sentirebbe molto l’aspetto di corporativismo, di lavoro perfetto ma fatto ognuno separato dall’altro, “meglio trovare persone che riescono a lavorare all’unisono, che sono capaci di condurre il film con un’unica voce”. Poi tocca alla macchina da presa che “non deve muoversi per anticipare ciò che sta per accadere, dato che non lo sa” e agli attori: “La credibilità è la nostra sola esigenza, cerco persone alle quali gli spettatori sono disposti a credere (…) cerchiamo attori con qualche fragilità, aperti, disponibili, generosi, non attori famosi perché in loro gli spettatori vedranno “prima la celebrità e solo dopo il personaggio”.
Un assunto così categorico e naturalistico che anche solo prendendo l’ultimo Jimmy’s hall sembra essere stato ottenuto con millimetrica precisione. Sfidare il racconto dei potenti è infine un libro in forma di autobiografia professionale che tocca fasi della carriera di Loach meno conosciute ma altrettanto cruciali per la forza politica della settima arte dal dopoguerra a oggi: la critica contro l’uso che si fa oggi della televisione per un artista che in tv iniziò con il lungo Cathy came home (1966) (“oggi i manager si intromettono in ogni ambito dal copione al casting e annullano ogni originalità del regista”); gli anni ottanta dell’era Thatcher in cui Loach venne ostracizzato, mal tollerato, costretto a girare documentari e infine censurato perfino dai distributori quando con il ritorno alla fiction de L’agenda nascosta (1990) – premio della giuria al Festival di Cannes – venne boicottato dalle singole sale del Regno Unito per aver raccontare la verità sugli omicidi di repubblicani irlandesi coperti dai servizi segreti inglesi. Infine trovano spazio nitide stoccate alle derive del laburismo e dalle socialdemocrazie odierne che non sono altro che destre moderate; prese di posizione ideologiche anticonsumistiche come l’uso della pellicola, soprattutto nel montaggio (“quando un montatore lavora in digitale per il regista che gli sta seduto accanto è difficile capire cosa stia facendo (…) montare in pellicola è un procedimento più lento che dà tempo di riflettere, è un ritmo più umano e agendo materialmente si agisce con più cautela”); e l’impostura ideologica della mecca del cinema, le produzioni hollywoodiane con star hollywoodiane con soggetti “buoni” ovvero un chiaro messaggio di rivendicazione: “Spesso si sente dire che per raggiungere il maggior numero possibile di persone ci vuole una star. Ma in tal caso non si tratta più dello stesso film. Nei discorsi sottesi a questo tipo di film esiste l’accettazione della gerarchia, della ricchezza estrema, del potere delle grandi imprese e di tutto quello che ne è connesso”.

Davide Turrini
(“Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2015)













Ken Loach, lo Spirito del '45. 
Quello che Blair ha cancellato

di Roberto Silvestri


Democrazia e socialismo. Si possono, si devono coniugare? E come? Il capitalismo, corretto e controllato,  è possibile? O stiamo maneggiando concetti obsoleti, idee-forza depotenziatesi con il tempo, nell'era della globalizzazione come religione verticista e fondamentalista? Questo è il punctum del film The Spirit of '45, Lo spirito del '45, uscito il 15 marzo scorso in Gran Bretagna e il Italia il 10 settembre scorso.

Stiamo parlando di cose ammuffite, vecchie, che risalgono a quasi 70 anni fa? Bé. Sono i vecchi le super-star di oggi. Non solo Clint, ma anche Up!, il gerontofilo di Bruce La Bruce, il matusa Lincoln, il cartoon per solo anziani Rughe... Oggi - nonostante il balbettio urlato dei rottamatori, vecchio è (paradossalmente) bello. E questo film sarà anche una bella sfilata di meravigliosi e meravigliose ottuagenarie. Ma il concetto di bene comune è addirittura più che millenario, come ricorda il filosofo americano Michael Sandel in Reith Lectures 2009... 
L'esperimento nordamericano di F.D. Roosevelt finì con la morte prematura del quattro volte presidente, nel 1945 (da allora rimosso dall'immaginario Usa con la scusa della caccia ai rossi: ma era lui il più odiato dalla destra). 
Le sue grandi campagne di spesa pubblica 'strutturale' e le nazionalizzazioni erano dirette al bene comune, pensate come controllo e fiancheggiamento, ma anche scavalcamento di mercato delle stessa mega corporation, i supereroi della grande crisi. 
Nella concorrenza (vi sfido e vi batto sul vostro stesso terreno, i conti, i profitti...) si sarebbe evidenziata la superiorità, pratica e etica, dell'azienda pubblica di mercato. Più profitto, più spesa socialmente utile. 
In Europa, le politiche socialdemocratiche, soprattutto scandinave, ma anche più a sud nel continente, hanno evidenziato però notevoli problemi di burocraticità, spreco, zavorra clientelare e inefficienza... Questo non significa che dagli errori non si debbano ipotizzare come realizzabili profonde 'riforme di struttura' (usando una terminologia Pci anni 60 e 70) e migliorare il welfare, lo stato sociale in senso né statalista né 'mafioso'.
Un film importante e controverso, un'opera non fiction diretta da un cineasta progressista come il britannico Kenneth Loach, si è occupato proprio di questo problema, cruciale e nodale (e la Bim ha fatto strabene a distribuirlo in Italia, in piena crisi anche dell'ideologia liberista, in una coraggiosa edizione originale con i sottotitoli).  Diffonderlo nelle scuole sarebbe pratico e doveroso.
E, a proposito del modello socialista del laburismo britannico postbellico (la sinistra guidò il paese dal 1945 al 1951) che il film racconta - e che fu modificato comunque esizialmente, perché la politica obbliga al 'compromesso storico' con la borghesia - già si rintracciano errori e timori paralizzanti della sinistra. Il non coinvolgimento dei sindacati nella gestione aziendale. La mancanza cronica di investimenti. L'assenza di una pianificazione di lungo periodo provocarono il fallimento delle nazionalizzazioni.
Ma soprattutto la mancata epurazione dei manager pre-nazionalizzazione. Il caso delle miniere, nazionalizzate e rese operative 24 ore su 24 per tutto l'anno, è emblematico: perché poi furono affidate - come ci racconta un'avanguardia di lotta - in amministrazione e coordinate proprio dagli stessi vecchi sgherri dei padroni privati, sia a livello locale che nazionale.   
Il principio guida delle nazionalizzazioni british style era che le società sarebbero state gestite come un business commerciale, non direttamente dal governo, ma da una 'corporation pubblica'. I vecchi manager rimanevano al loro posto e i proprietari venivano intermaente risarciti in buoni del tesoro. Contratti di lavoro e diritto di sciopero rimanevano inalterati (e inalteratamente repressi dai manganelli dei poliziotti).
Ma per un momento fu grande festa. Siamo a Londra, nel 1945. Nelle piazze e nelle strade si balla, a ritmo di swing e anglo boogie-woogie (grandiosa la colonna sonora, quasi tutte jazz band dell'epoca), per festeggiare la fine della guerra dei sei anni.
Uno spettro si aggira però nel paese e incupisce i volti raggianti delle ragazze che baciano, quasi discinte, i marinai di Piccadilly Circus. L'incubo di tutto il popolo britannico è di ripiombare nel 1919 postbellico, con tanto di stenti, devastazione sociale, miseria, slums, fame, disoccupazione, infezioni, sfruttamento, infortuni assurdi sul lavoro e malattie, incurabili solo perché mancano ai lavoratori i soldi per curarsi...
Per illustrare quel frangente delicato Ken Loach torna dopo anni al documentario, quasi parallelamente all'uscita del libro Austerity Britain, scritto dallo storico David Kynaston su quel periodo chiave della storia britannica. E si chiede: basta nazionalizzare il 40% delle capacità industriali di un paese per attraversare una 'fase socialista' di crescita economica, o senza un controllo 'dal basso' sprechi e inefficienza faranno crollare l'intero progetto? 
Loach ritrova così nel passato antiche cose dimenticate, ma molto attuali, e in qualche modo riassume in questo film l'intero atlante del suo cinema (lotte operaie e nei servizi, privatizzazione delle ferrovie, sconfitta dei minatori, guerra di Spagna, radiografia di un interno proletario...). 
E ci scodella le parti migliori del materiale d'archivio statale e regionale che ha rintracciato con i suoi implacabili collaboratori, per lo più in squillante bianco e nero, intervistando per commentarle (sempre in un bianco e nero suggestivo) trentatre tra testimoni militanti d'epoca, minatori, operai, infermiere, ex combattenti in Spagna dalla parte giusta, madri di famiglia, ma anche storici radicali, sindacalisti, militanti e leader della sinistra laburista come Tony Benn. 
Una casalinga, nel footage d'archivio, davanti al palazzo dove viveva, completamente distrutto da un bombardamento tedesco, commentava in uno stile più british che neorealista di fronte alle macerie: "e pensare che avevo lavato tutti i vetri dell'appartamento proprio ieri".
"Abbiamo vinto la guerra insieme, insieme potremmo vincere la pace. Lo spirito di collaborazione e solidarietà che ci ha accompagnato durante le campagne militari antifasciste, ci potrebbe aiutare a ricostruire il paese e a farlo funzionare meglio,  creando, dal basso, una nuova fabbrica sociale. Lo dobbiamo ai nostri fratelli e sorelle morti sul fronte o sotto i bombardamenti". Eccolo lo spirito del 45. Autogestione e qualche miliardo di sterline del piano Marshall per far ripartire e modernizzare le industrie...
E' quel che voleva il 70% del paese, i lavoratori e le lavoratrici scozzesi, gallesi, inglesi e nord irlandesi. Si chiama controllo operaio. 
Però, ci si chiede, perché mancano un po' dal documentario, sono proprio sempre fuori quadro, i lavoratori e gli intellettuali di origine asiatica, antillana e africana, la working class del Commonwealth? Una stranissima assenza, notata da qualche collega inglese, perché gli aliens avranno una parte non insignificante nella prosieguo della vicenda. Il fatto è che il film è non affatto di parte, ma ha certamente un tono nazionalitario, sanamente patriottico. E nel 1945 lo 'spirito' è tutto wasp, white anglo-saxon protestant. 
Fino al 1948 infatti sono solo 30 mila i 'non bianchi' che abitano nel Regno Unito, anche se si fanno sentire. Una legge laburista di quell'anno estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero (compresa l'India che sta lottando per l'indipendenza) soprattutto per ringraziare le migliaia di soldati canadesi, neozelandesi, sudafricani, australiani, e anche africani e neri caraibici, morti sui campi di battaglia... Si tratta di circa 450 milioni di cittadini britannici, tutti con gli stessi diritti, che abitino a Nairobi o a Liverpool.
Se si rievoca, nel film, lo 'spirito del '45', quello che spinse un intero popolo attivato a cambiare il proprio futuro, è proprio per spronare la gioventù europea di oggi . E mettere in altra luce la signora di ferro, che si sarebbe incaricata di cancellare dalla storia e dalla memoria, a partire dal 1979 e con particolare violenza a Brixton, dove i bobbies scatenarono tutto il loro razzismo... 

Nel frattempo erano cambiate molte cose. Tra il 1948 e il 1962 per rimordernare le industrie, bisognose di lavoratori non specializzati, erano stati risucchiati in Gran Bretagna cinquecentomila proletari, per lo più provenienti dalle West Indies, dall'India e dal neonato Pakistan. L'ondata di razzismo scuote la perfida Albione.  E' l'epoca dei cartelli sui negozi: "no irlandesi, no neri, no cani".  Sarà presto quella di Enoch Powell e delle sue gang neonazi del Fronte Nazionale. 

Ma contemporaneamente, si afferma la strategia (ambigua) del multiculturalismo che si vuole contrapporre al melting pot e alla transculturalità: "l'integrazione non è un processo di assimilazione del diverso ai nostri valori, ma significa permettere una eguaglianza di possibilità per tutti, accompagnata dal rispetto della diversità culturale e dalla tolleranza reciproca" (Roy Jenkins, ministro laburista del 1968). Poco dopo i governi conservatori smantelleranno anche il diritto di cittadinanza per i lavoratori del Commonwealth. E i disordini razziali si moltiplicheranno.
Ma torniamo indietro, a quelle sorprendenti elezione del luglio 1945.   
Miracolo, il grande vincitore del conflitto antinazista, il liberale Winston Churchill, viene sconfitto nel 1945 e addirittura violentemente fischiato quando, durante la campagna elettorale, ha usato gli abituali e 'sempre verdi' slogan della destra ("noi siamo per una diseguale ricchezza, loro per una uguale povertà") e si è permesso di accusare violentemente gli ex preziosi alleati sovietici paragonandoli alla Gestapo (un cavallo di battaglia del pensiero reazionario, ma in quel momento doveva suonar ancor più infame).
Vince la sinistra. Si potrà costruire la "Nuova Gerusalemme". Il manifesto elettorale laburista, al paragrafo IV, quello che poi Tony Blair cancellerà (per fare un favore a Renzi?), promette di "assicurare ai lavoratori materiali e immateriali il pieno frutto del proprio lavoro, sulla base della comune proprietà dei mezzi di produzione, della distribuzione e dello scambio". Lo stesso manifesto garantisce un decente standard di vita per ogni famiglia. Quel manifesto seduce la maggioranza degli elettori.  
Il paese così volta pagine. E manda al governo il laburista Clement Attlee che, con il suo coriaceo ministro dei lavori pubblici e della sanità, Aneurin Bevan, detto Nye, scandalizzarà per una decina di anni tutti i profeti del libero mercato (che lo chiameranno il 'fuhrer della medicina', anche se ci sarà chi, come il professor Harry Keen, 87, fonda e guida una associazione di medici pro Nhs e spiega a Loach il perché). 
Si attua a poco a poco, e non senza contrasti di classe anche aspri, e perfino con la classe operaia (quando, nel 1948, la guerra fredda costringerà Attlee a scegliere con chi stare, starà con Truman e non con Stalin), la politica economica di Keynes, basata sulle nazionalizzazioni strategiche (acciaierie, porti, strade, ferrovie, energia...), sul controllo pubblico delle banche e sul welfare, su una forte spesa edilizia, scolastica e sanitaria statale e sulla fine delle spese coloniali (è Attlee che firma l'indipendenza dell'India e gestisce il ritiro dalla Palestina). E' la rivoluzione nella democrazia. Durerà poco. 
Ed è ancora spirito del '45: lo stato si impadronisce delle industrie chiave che i capitalisti privati hanno piegato alla sola logica del profitto, con conseguenze irrazionali e paradossali (trasporti pubblici intasati, acqua, energia e telefonia a tariffe alte, edilizia e miniere funzionanti a singhiozzo...) e impone per la prima volta nella storia l'assistenza sanitaria pubblica e gratuita per tutti, terrorizzando, ma poi cooptando, una parte della corporazione medica (gli specialisti).  
L'utopia plausibile di F.D. Roosevelt, il capitalismo embedded, sottoposto a regole ferree, e particolarmente frenato nei suoi bassi istinti rapaci soprattutto durante le crisi economiche che le mega-corporation provocano ciclicamente per ingrandirsi (è la loro malattia incurabile) e mangiare i pesci piccoli, si realizza invece in Europa. 
Per la classe operaia è la rivoluzione western style, quella che 'non russa'. Un minatore vedrà spendere soldi pubblici per rendere sicure le gallerie sotterranee, prima di essere spedito a riempire più carrelli di carbone possibili senza pù rischiare la pelle all'80%. Affitterà a prezzo contenuto una casetta a due piani (con il giardino, la cucina e il bagno!) nei suburbi, costruita in soli 12 mesi proprio per lui, invece di ammalarsi di tubercolosi nelle solita spelonca ammorbante, permettendosi cure per tutta la famiglia, invece di vederne morire una parte per mancanza di scellini e pence. Dovrebbe, certo, avere molti più soldi per la sua fatica bruta, rispetto a chi ha lavori 'creativi e piacevoli'. Ma questo sarebbe comunismo....    
La sera stessa della vittoria elettorale di luglio, Atlee presenta al popolo il suo governo in un teatro londinese, al Limehouse, e annuncia: "il mio programma sarà socialista". Sembra Allende. Non finirà come lui. Ma il labour mollerà a poco a poco la presa... 
Quando i minatori e gli operai bianchi inglesi, ricordando le privazioni, gli stenti, la repressione degli anni venti e trenta, si chiederanno come mai il più grande impero del mondo avesse potuto trattare per secoli i suoi concittadini come schiavi, da una parte si ricorderanno di Karl Marx che, analizzando la sconfitta del 1848 tedesco, scriveva: "in un punto i borghesi prussiani si avvicinano all'ideale inglese: nel maltrattare sfrontatamente gli operai". 
E poi si chiederanno se quella magnificenza urbanistica e sontuosità da capitale del mondo di Londra non sia stato il frutto della rapina coloniale, piuttosto avida e continuata, all'opera da almeno 4 secoli. Ecco perché ci sono voluti gli israeliani per costruire il mega centro commerciale di Nairobi, ora in briciole, e non è successo invece il contrario, che fosse keniana la proprietà e l'edificazione del palazzo dei Lloyds di Londra...   
Tra gli intervistati da Loach nel documentario (più appassionante di un 'romance', più thrilling di un horror,
più informativo di un tg3) c'è l'ex Ray Davies, 83 anni, veterano gallese della guerra di Spagna (e il berretto rosso che ha in testa non smentisce) ed è lui che ci ricorda i morti nelle viscere della terra, assassinati senza scrupoli (e senza galera) dai padroni. Li ha visti con i suoi occhi i suoi colleghi morti schiacciati dalle pietre perché mancavano le impalcature di sostegno corrette, quando scendeva nelle gallerie a 15 anni.  
Un minatore, allora, anche senza incidenti, aveva una vita media di 42 anni. E una novantanovenne di Liverpool, Eileen Thomson, cresciuta negli slums degli anni 30: "Volevamo lavoro e tranquillità, non eravamo particolarmente ambiziosi né avidi, ma non volevamo più vedere sfilare nelle strade orde di disoccupati affamati e questuanti come durante la grande crisi. Uno per tutti e tutti per uno, le case per molti e niente stralusso per pochi. Queste erano le nostre parole d'ordine".    
Chissà perché oggi tutti mitizzano la Thatcher e investono miliardi per glorificarne la figura, anche se fu oltre che una teppista sociale anche una supporter strenua dell'apartheid di Pretoria e dunque un essere moralmente ributtante a livello basic (gli occhi di Meryll Streep non sono riusciti a incorporarne quello sguardo da squalo). 
E invece nessuno ha mai fatto un film sulla rivoluzione del National Health Service, il servizio sanitario nazionale, che, nato nel 1948, la Thatcher non riuscì proprio a distruggere, nonostante i suoi tentativi, se non in un pezzetto, societarizzando le compagnie che si occupano del vitto e delle pulizie negli ospedali (con risultati orrendi, ci spiega l'infermiera Karen Reissmann dal punto di vista dei costi pubblici, perché pulizie mal fatte, un solo turno invece dei due pubblici precedenti, significano più infezioni e infezioni significano più spesa medica). Credo che sia per questo motivo che Loach ha considerato necessario, indispensabile, soprattutto per le nuove generazioni ignare, preparare questa lezione di storia, in puro spirito 'rosselliniano'. Il fatto è, commenta Ray Davies, che 'solo il popolo aiuta il popolo'. Lo abbiamo imparato allora, ma oggi molti lo hanno dimenticato. 
June Hautot, 76 anni, che vive nella zona sud di Londra, ricorda nel film che suo padre, operaio delle ferrovie, ferito in guerra e sua madre, malata di cancro, furono più truffati che curati dalle compagnie d'assicurazione private. Solo quando nacque l'Nhs le cose cambiarono e l'assistenza divenne 'meravigliosa'. La signora Hautot, una celebrità dei media britannici per aver affrontato pubblicamente, al grido di 'vergogna', il ministro della salute Andrew Lansley a Downing Street, colpevole di tentata privatizzazione della Nhs, ricorda anche le parole di Tony Benn, il leader della sinistra laburista: "Non è la politica, non sono i politici, ma è solo il popolo che cambia le cose". E aggiunge: "Nessuno ci strapperà la Nhs. Nessuno".  
Margaret Thatcher ha provato, anche lei in perfetta continuità con il pensiero e le opere di San Francesco (che cita, appena eletta, con passione, in una delle scene più interessanti del film) a cambiare il cuore e la mente dei suoi concittadini rovesciando l'impostazione di Attlee: individualismo invece di socialità, niente tasse, libero mercato, privatizzazioni, smantellamento delle organizzazioni sindacali, monetarismo. Nel 1984 distrusse le miniere e Skargill. Subito dopo tornarono agli azionisti privati British Telecom, British Aerospace e British Gas. Acciaio, acqua, Rolls-Royce e British Airways furono privatizzate. La disoccupazione falcidiò l'industria siderurgica, mineraria e manifatturiera.Il governo Cameron tuttavia non demorde e ha concepito nel 2012 la Health and Social Care bill, che vorrebbe privatizzare il sistema sanitario e che nel film viene contestata da robuste manifestazioni di massa. 
Eppure l'economista James Meadway cerca di spiegare a Loach perché è un luogo comune affermare la superiore efficienza del settore privato su quello pubblico. O c'è chi pensa davvero che l'attuale austerità sia colpa delle eccessive spese sociali e degli sprechi del settore pubblico voluti per anni dai governi di centro sinistra? Eppure il governo Labour spese meno (il 39% del Pil) nel settore pubblico rispetto a Major (40%) e Thatcher (41%). 
Sempre Meadway ci invita a scrivere altre storie e parlare di  "Quelli che considerano la solidarietà più importante della concorrenza e vogliono difendere il comune e il pubblico dall'incursione interessata del privato. Se non scriviamo questa storia possiamo dire addio al welfare.  O se, come afferma Loach, "siamo in una società in cui una gran parte dei cittadini ritiene di non essere parte della politica". Invece, come nel 1945, dobbiamo ricordare il succo di quella lezione: in quella elezione vinse il controllo democratico sull'economia. Ecco perché alla fine del film le immagini delle ragazze gaudenti che ballano e si spupazzano i loro soldatini diventano, da bianco e nere che erano, dei fiammeggianti, vittoriosi technicolor.  

(da “Il CiottaSilvestri – Rivista on line” del 28 settembre 2013)


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