2 marzo

OffiCinema: 
Clint Eastwood
Storie di uomini in guerra
















Clint Eastwood, l’inutile lezione della guerra

di Luca Celada

LOS ANGELES - Clint entra nella stanza con l’andatura inconfondibile da Uomo Senza Nome, appena irrigidita dagli anni, gli occhi blu ghiaccio addolciti da un sorriso all’angolo della bocca (più tardi l’occhiolino, impagabile, mentre prende in mano una copia de il manifesto per farsi fotografare).
Sono passati sessant’anni da quando, attore di tv pomeridiana, fu capace di reinventarsi come personaggio iconico grazie all’incontro con Sergio Leone che ricorda tuttora calorosamente. Rinomato bastian contrario con una spiccata allergia alle mode e i focus group usati dagli studios per sondare il gradimento del pubblico, Eastwood è uno che la sua strada se l’è sempre fatta da sé. Nel cinema e nella politica. L’uomo che è stato Callaghan e sindaco di Carmel è stato spesso accusato di essere «di destra», semmai però ha espresso un populismo sincero che tuttavia non è quello becero e oscurantista del Tea Party, piuttosto quello «radicale» dei seguaci ultraliberisti di Ron Paul, e più di tutto affine a quello atavicamente americano dei film dell’amico e mentore Frank Capra.
Clint è un «conservatore» capace di fare film contro la pena di morte (Fino a prova contraria) contro il razzismo (Gran Torino) e contro la guerra (Lettere da Iwo Jima).
Nell’ultimo American Sniper torna alla guerra e ai grandi racconti americani con un film feroce e complicato che farà discutere e, ancora di più, farà sicuramente anche incazzare parecchia gente.
La storia è quella di Chris Kyle, cecchino dei Navy Seals, campione di kills, a cui in quattro turni di servizio in Iraq vengono attribuiti 160 nemici uccisi accertati (255 «probabili») che, data la definizione assai elastica di «enemy combatants» nella guerra «asimmetrica», comprendono civili, donne e bambini. Texano tutto d’un pezzo, redneck e cowboy da rodeo, dopo gli attentati all’ambasciata Usa in Kenya e Tanzania, Kyle parcheggia il pick-up d’ordinanza davanti all’ufficio di reclutamento e si arruola nei Navy Seals.
Ma American Sniper è soprattuttto un film sull’ossessione e i suoi costi morali. Incomparabile per la rappresentazione della surreale normalità di una guerra «pendolare» che alterna gli orrori dell’occupazione alla monotona banalità dei turni a casa; una paradossale dissociazione per i soldati e una comoda rimozione per un Paese che ne «scopre» il costo reale attraverso i rapporti parlamentari sulla tortura.
In questo mondo il Callaghan/Achille di Clint torna dal fronte traumatizzato nel profondo — non conoscerà la catarsi del pentimento ma la patologica frattura interiore dei reduci.
Grazie anche alla splendida interpretazione di Bradley Cooper, il film fotografa la sindrome traumatica che devasta decine di migliaia di reduci e a cui, nelle guerra perpetua, sono destinate generazioni di veterans. Siamo nel mondo manicheo dell’idolatria della bandiera e della fatale attrazione per le armi da fuoco che, dal Medio Oriente al commissariato di Ferguson, è così inestricabile dalla mitologia nazionale.
Perchè l’attrae la guerra come soggetto?
Le storie di guerra erano molto popolari quando ero ragazzo, sono cresciuto con l’immagine di Robert Taylor in Bataan (di Tay Garnett, ndr), e tutti gli altri film dell’epoca. Erano storie memorabili. Il conflitto è la base del dramma e la guerra è il conflitto per antonomasia.
E il suo rapporto col patriottismo?
Quando è scoppiata la seconda Guerra mondiale avevo undici anni. Nella mia vita ho assistito a molti cambiamenti di opinione riguardo al patriottismo. Durante la seconda Guerra non si discuteva nemmeno: tutti erano patriottici, a favore della guerra «giusta» combattuta per assistere le nazioni europee. Si andava al cinema a vedere i cinegiornali sul Pacifico e l’invasione di Iwo Jima — tutte cose che mi sono ricordato quando ho fatto i film. Quindi provengo da una generazione in cui il patriottismo era un articolo di fede. Solo quattro anni dopo eravamo di nuovo in azione in Corea. Ricordo di aver pensato che la situazione presentava una strana ironia: ci avevano appena finito di dire che non ci sarebbero state più guerre, e di colpo eccomi reclutato. Era il 1951 e ci chiedevamo cosa diavolo ci stessimo a fare laggiù. Col Vietnam poi se lo chiese anche un mucchio di altra gente: perché continuavamo a combattere? E quando sarebbe finita una volta per tutte?
Invece non è ancora finita.
Già. Non sono mai stato d’accordo con la guerra in Iraq, e le ragioni erano sempre le stesse, che mi hanno spinto in passato a essere contrario all’intervento in Corea e agli altri che sono seguiti. Noi che siamo cresciuti con la seconda Guerra abbiamo conosciuto la sofferenza, e a un certo punto diventa inevitabile chiedersi quale sia il fine di tutto questo.
E quindi l’Iraq?
Ricordo che eravamo sul set di Mystic River quando hanno deciso di rimandare le truppe in Iraq per la seconda volta. All’epoca di Bush padre molti americani si erano schierati a favore dell’intervento militare nel Golfo, ma in quel momento tanta gente era contraria. Saddam non era certo popolare qui in America, ma se si devono prendere decisioni simili in base all’antipatia il rischio è di non fermarsi più. Il mondo è pieno di antipatici.
Oggi cosa pensa?
La prima Guerra mondiale doveva mettere fine a tutti i conflitti, invece sappiamo come è andata. A un certo punto ti viene da chiederti se l’umanità sia davvero capace di vivere in pace, una cosa che non sembra essere nel nostro Dna. Non sembra che la Storia stia dalla parte della pace, non certo almeno a giudicare dalla propensione che abbiamo ultimamente di andare a esportare la democrazia in paesi che non ne vogliono sapere. È tragico che sia così, ma credo anche che quando fai un film sulla guerra impari qualcosa su te stesso, cominci davvero a riflettere sulla guerra e in definitiva sul ruolo che il tuo Paese ha nelle guerre.
Kyle, il cecchino del suo film, impara?
Perlopiù sono altri personaggi quelli che pongono interrogativi sulla moralità della guerra, lui è costantemente nella posizione di giustificare il proprio operato, e a furia di difenderlo arriva al punto in cui non ne è più così certo. La scena in cui alla fine dice allo psichiatra che è pronto ad affrontare il Creatore senza rimpianti mostra in realtà l’esatto contrario.
E lei cosa ha imparato dalle sue esplorazioni della guerra?
Fare un film sulla battaglia di Iwo Jima e poi rivisitarla dal punto di vista giapponese per me è stato molto interessante. All’epoca anche le truppe americane, e perfino i generali dei marines, elogiarono la difesa dei giapponesi. Approfondire la loro realtà è stato molto stimolante. Penso che sia uno dei miei film più riusciti.
Potrebbe immaginare un’operazione analoga sulla guerra in Iraq, raccontarla dal punto di vista del nemico?
Non credo. Forse qualche altro regista in futuro. Intanto però dovrebbe finire. E poi tutto dipende dalla storia, se c’è qualcosa degli avversari che vale la pena esplorare, che è interessante, allora è una storia che è bene raccontare.
Ama le armi da fuoco?
Io? Credo che l’ultima volta che ho imbracciato un fucile sia stato in quella scena di Gran Torino quando dico: «Get off my lawn!». Per fortuna era caricato a salve, altrimenti c’era il rischio che accecassi qualcuno.
Se incontrasse sé stesso da giovane cosa si direbbe?
Non so. Quel ragazzo non era particolarmente sveglio. Forse gli direi di non perdere tanto tempo e di darsi da fare.

Luca Celada 
(“il Manifesto” del 18.12.2014)










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