Thomas, regista
teatrale, sottopone ad audizione la giovane Vanda per il ruolo da
protagonista nel suo adattamento dal romanzo di Leopold von
Sacher-Masoc Venere in pelliccia. La ragazza, apparentemente
inesperta e volgare, si dimostrerà scaltra e con le idee molto
chiare sul ruolo, in grado perciò di dare molto filo da torcere al
nevrotico regista.
Tratto da un testo
teatrale di David Ives, a sua volta ispirato al romanzo di Leopold
von Sacher-Masoch, e tutto girato in un teatro, di sé il film di
Roman Polanski mostra subito la dimensione dell'eros masochistico,
insieme con quella non meno erotica del gioco tra il narcisismo del
regista e quello dell'attore. In questo gioco, ancora, si innesta la
logica del potere che l'uomo pretende di esercitare sulla donna.
Intervista a
Roman Polanski
In che modo ha
scoperto il lavoro di David Ives, ispirato al romanzo di
Sacher-Masoch?
Grazie al mio agente, Jeff Berg. L'anno scorso a Cannes, dove mi
trovavo per assistere alla proiezione della versione restaurata di
Tess, mi ha consegnato la sceneggiatura di Venere in pelliccia e mi
ha detto: "È perfetta per te!". Non avevo molto da fare e
così sono salito nella mia stanza e ho iniziato a leggerla e… ho
pensato: "Sì, mi piace!". Il testo era così divertente
che mi sono ritrovato a ridere da solo, il che è piuttosto raro.
L'ironia della pièce, che talvolta sfiora il sarcasmo, era
irresistibile. Mi è piaciuto anche l'elemento femminista e ho voluto
immediatamente farne un film. Per prima cosa c'era un ruolo magnifico
per Emmanuelle, e da tempo parlavamo di tornare a lavorare insieme,
poi un bellissimo ruolo maschile. Ho immaginato subito di ambientarlo
in un teatro vuoto, forse perché ho un background teatrale. Un
teatro crea un'altra dimensione, una certa atmosfera...
Dopo Carnage, di
Yasmina Reza, questo è il suo secondo adattamento di un lavoro
teatrale e il suo primo film in francese...
Non prendo mai in considerazione questi aspetti, è stato il soggetto
che mi ha ispirato. E un'altra cosa: ci sono solo due personaggi. Fin
dal mio primo film (Il coltello nell'acqua, 1962) in cui ne erano
presenti solo tre, mi sono detto: "Un giorno realizzerò un film
con solo due personaggi!". È una vera sfida, ma una sfida che
mi dà ispirazione, perché presenta degli ostacoli… altrimenti mi
annoio. La sfida era trovarsi in un unico ambiente con due personaggi
senza mai annoiare gli spettatori, senza che apparisse teatro ripreso
per la televisione. Davvero interessante, soprattutto ora, perché
andare al cinema significa ritrovarsi bombardati dalle immagini e dal
sonoro. Realizzare i trailer è la parte più difficile! Ce ne sono
alcuni che concentrano la violenza di un intero film: decine di
esplosioni, decine di macchine che saltano e tra una ripresa e
l'altra sempre lo stesso sonoro, come se fosse l'unico che possiedono
nel loro repertorio...
Può parlarci di
come ha lavorato all'adattamento con David Ives?
Per prima cosa abbiamo tagliato i dialoghi e apportato dei
cambiamenti ad alcune scene. Il nostro scopo era trasformarlo
realmente in un film. Nel lavoro teatrale tutto avviene in una sala
per audizioni, abbastanza impersonale. Invece in Francia, in
particolare nei teatri privati, dove non ci sono compagnie stabili,
le audizioni si tengono spesso sul palco. Quindi il mio primo
pensiero è stato di ambientare l'azione in un teatro. Trovarsi in un
teatro cambia tutto, fin dall'inizio! Potersi muovere tra il palco e
la platea, per non parlare dello spazio dietro le quinte, offre
tantissime opportunità. Il nostro lavoro è stato molto attento ai
particolari, anche se, durante le riprese, ho cambiato alcune
situazioni e improvvisato dei movimenti.
Le è familiare
il mondo di Sacher-Masoch?
No, niente affatto!
È un mondo che
la attrae?
Per niente! In un certo senso lo trovo buffo. Un amico mi ha fatto
vedere alcuni film pornografici giapponesi sadomaso. Folli! Al punto
da essere lievemente terrorizzanti. Non avevo idea che così tanta
gente potesse essere appassionata di questo tipo di cose. Intravedo
un parallelismo con il punk e il gotico: c'è qualcosa di innaturale,
fatto per impressionare gli altri o per seguire una moda. Penso che
alcuni lo facciano per sentirsi parte di un gruppo, per essere come
gli altri punk o gotici, piuttosto che per il piacere di bucarsi le
guance o indossare abiti scomodi.
Nel sadomasochismo c'è qualcosa di non molto diverso dal teatro:
diventi regista delle tue fantasie, interpreti un ruolo, diventi
un’altra persona… Il film gioca con questa teatralità, un lavoro
teatrale all'interno di un lavoro teatrale: dove dominazione e
sottomissione, teatro e vita reale, personaggi, realtà e fantasia si
incontrano, si scambiano di posto e confondono le linee di confine…
Nel film, l'attrice dice: "Nuda sulla scena? Non c'è problema.
Lo farò per te senza problemi. E poi il sadomasochismo mi è
familiare, lavoro in teatro!".
Pensa che i
rapporti tra registi e attori siano sadomasochisti?
Certo, ma il film ironizza su questo aspetto. È una delle battute
scritte da David Ives che mi ha fatto ridere e mi ha fatto venire
voglia di adattare il suo lavoro. È stato divertente ed eccitante
trovare un registro diverso per ogni situazione, un linguaggio
diverso, un gioco diverso, soprattutto per il personaggio
interpretato da Emmanuelle. Sicuramente il personaggio di Mathieu
Amalric vive meno cambiamenti, ma le differenze sono più sottili.
A quale
personaggio si sente più vicino?
A nessuno dei due! Anche se... il mio lavoro mi posiziona più vicino
al personaggio del regista ovviamente, ma non a questo! Spero di non
aver mai commesso quel tipo di errore! Se avessi adattato io stesso
Sacher-Masoch e lo avessi diretto… non credo che sarei stato
intrappolato da una donna come quella. Mi piace quando il regista
dice: "Ho intenzione di usare la Lyric Suite di Alban Berg per i
passaggi", e lei dice "è una splendida idea!" e lui,
sorpreso, le chiede se la conosca e lei risponde "no".
Adoro questo tipo di momenti.
Quale dei punti
di forza di Emmanuelle Seigner l'hanno resa particolarmente adatta a
interpretare questo ruolo?
La sua fisicità, l'immagine che proietta e la sua abilità nel
passare da un'emozione all'altra... Pensavo che il personaggio
dell'attrice sarebbe stato molto facile per lei da interpretare, ma
durante le riprese mi sono reso conto che era l'altro personaggio –
il personaggio del libro di Masoch, Vanda von Dunajev – che le
veniva molto più facilmente, anche se non ha mai avuto problemi con
nessuno dei due. Passava dall'uno all'altro con grande naturalezza e
riusciva a modificare la voce, l'accento, l'atteggiamento e la
fisicità – due corpi diversi – senza problemi.
Cosa dice di
Mathieu Amalric?
È un grande attore e anche un regista, quindi capisce molte cose e
tante situazioni. È talentuoso, intelligente e ha l'età giusta.
Tutto quello che era necessario per interpretare la parte con
successo! Pochi altri attori sarebbero stati capaci di fare ciò che
ha fatto lui, e con altrettanta finezza.
La cosa che
colpisce di più in questo film è quanto le assomiglia. Fa tornare
in mente il suo personaggio in Per favore, non mordermi sul collo! e
L'inquilino del terzo piano. È stato intenzionale?
È possibile che lui abbia deciso in questo senso, ma non è stata
una mia decisione. All'inizio non me ne ero neppure accorto. Anche se
la prima volta che ci siamo incontrati (grazie a Steven Spielberg che
ci ha presentati mentre stavano girando Munich) Mathieu mi ha
rivelato che spesso gli dicevano che mi assomigliava molto.
Colpisce anche
quanto questo film ricordi altri suoi lavori, da Per favore, non
mordermi sul collo! a Luna di fiele e L'inquilino del terzo piano,
non solo per la situazione claustrofobica, ma anche per l’atmosfera
e i temi.
Neppure di questo mi ero accorto. In un film come questo, semplice,
non troppo costoso e completamente sotto il controllo del regista,
non ci sono vincoli, si ha piena libertà. Quindi non deve
sorprendere che i "vecchi fantasmi" o i "vecchi
demoni" tornino a ossessionarti… A essere sinceri non ci avevo
pensato. Semplicemente mi è piaciuto il testo e ho realizzato il
film come l'ho visualizzato. È stata una magnifica avventura per
tutti quelli che sono stati sul set, una produzione davvero
piacevole.
Siamo stati molto fortunati. Ogni volta che volevamo qualcosa che era
difficile da ottenere riuscivamo ad averla! Tutto sembrava cospirare
a favore della realizzazione del film. Il colpo di fortuna più
grande è stato trovare un teatro dove costruire un set grande
abbastanza per le nostre necessità. Il primo posto cui ho pensato
mentre leggevo la sceneggiatura è stato il Théâtre Hébertot –
non quello restaurato di recente, ma quello un po’ più lasciato
andare, dove ho messo insieme Doubt (nel 2006) -. Cercavamo un teatro
e alla fine ci è venuto in mente il vecchio Théâtre Récamier, che
era chiuso da tanto tempo, ed è uno spazio vuoto, ma con la zona
della platea e i resti di un palco. Jean Rabasse, il nostro
scenografo, ha ricostruito ogni cosa, dal palco, ai posti a sedere,
al backstage. Alla fine del suo lavoro eravamo in un vero e proprio
teatro! Dopo cinque settimane di prove siamo stati in grado di girare
il film in ordine cronologico. È stata un'opportunità straordinaria
e sarebbe stato un peccato perderla.
La messa in
scena è molto rigorosa ed estremamente fluida...
Si impara sempre qualcosa nel corso degli anni!
Quante macchine
da presa ha usato?
Solo una. Per me, e soprattutto per questo film, c'è solo un
"miglior punto di vista". Potrebbero essercene altri,
alcuni buoni, ma solo uno è il migliore! Io giro dalla mia
prospettiva, seguendo quello che vorrei vedere con la macchina da
presa. Comunque uso sempre gli attori per bloccare le scene,
preferisco che le cose vengano da loro piuttosto che da me. Non puoi
fissarti su qualche idea di regia e poi cercare di passarla agli
attori. Sarebbe come avere un completo di ottimo taglio e poi cercare
di farci entrare qualcun altro! E a un certo punto della storia è
l'attrice che sceglie il suo posto sulla scena. Quando giro succede
qualcosa di simile. Inizio provando con gli attori e poi mi domando
come filmarli. La macchina da presa racconta la storia di quello che
vedo. Per questo uso solo una macchina. E poi con questo tipo di
soggetto la seconda macchina finirebbe nella prima inquadratura!
Ha lavorato
ancora una volta con Pawel Edelman. Cosa cerca in un direttore della
fotografia?
Deve capire esattamente cosa voglio vedere. Con Pawel, non c'è quasi
bisogno di parlare; lui sa quanto voglio realizzare rapidamente il
film. Posso dire la stessa cosa per Alexandre (Desplat, il
compositore). Tutti e due sono diventati miei ottimi amici e colleghi
eccezionali che capiscono e anticipano le mie idee e le sviluppano.
C’è molta
musica in Venere in pelliccia che si contrappone alle situazioni,
aggiunge fantasia, humour, ironia e una certa leggerezza.
L’unica cosa che ho detto ad Alexandre era che volevo molta musica.
Lui ha letto la sceneggiatura e ha avanzato qualche suggerimento,
esattamente nello spirito che volevo io. È così. Semplice. Lo
stesso è successo con Pawel. All’inizio del film tutto quello che
volevo era l’atmosfera di un teatro cadente, girato realisticamente
e da qui muoversi progressivamente verso la fantasia e
l’immaginazione.
Dopo la scena
della telefonata nel backstage, capiamo che il film è arrivato a un
momento cruciale. La luce è diversa. Il personaggio di Emanuelle
Seigner non è più lo stesso. Sembra quasi di entrare in un sogno...
Mi piace sviluppare gradualmente l'ambiguità. Anche mentre stavamo
lavorando all'adattamento, con David Ives, volevamo accrescere quel
senso di allontanamento dalla realtà, senza che lo spettatore se ne
rendesse conto. E abbiamo continuato nello stesso spirito durante le
riprese. Battute come: "È Venere che arriva per prendere la sua
testa", che giriamo letteralmente, ci sono per turbare lo
spettatore.
La danza finale
è una sorta di climax di questa progressione, di questa ambiguità...
L'idea mi è venuta abbastanza tardi. Sapevo l’atmosfera che
volevo, ma non riuscivo a trovare il modo per comunicarla, come
creare la sensazione che stavo cercando. E poi ho avuto l’idea di
questa danza, ispirata all'antica Grecia, come la musica.
Anche il cactus
sul set ricorda una colonna greca!
Sì… Tutto inizia con una versione musicale di Ombre rosse!
Con David cercavamo un titolo che fosse il più possibile lontano da
Sacher-Masoch. Qualcosa che sarebbe stato sicuramente un flop e
avrebbe lasciato libero il teatro per il nostro Thomas Novachek. E
avevamo bisogno di un totem cui potessimo legare Thomas. Ci siamo
scambiati una serie di idee e abbiamo riso molto. Un giorno ho
pensato a una specie di western, e da qui è nata l'idea di un
adattamento musicale del film di John Ford. Per la scena in
questione, il mio primo pensiero è stato il totem. Jean (Rabasse),
che ha progettato un set ispirato alla Monument Valley, mi ha
suggerito varie cose, tra cui i cactus. Mi sono piaciuti subito i
suoi cactus: è stata un’idea davvero divertente!
Lei ha letto
Venere in pelliccia a Cannes l'anno scorso ed è tornato esattamente
un anno dopo in concorso: è raro che le cose vadano così
rapidamente.
Sì, è folle. Ci sono film come questo in cui tutto funziona. Gli
attori e i tecnici sono stati eccezionali ed è soprattutto grazie a
loro se siamo riusciti a finire il film in così poco tempo. Ma
abbiamo lavorato duro! E poi abbiamo lavorato duro al montaggio!
Se potesse
conservare un'unica immagine dell'avventura di Venere in pelliccia,
quale sarebbe?
Isabelle, studentessa
diciassettenne, dopo aver perso la verginità durante le vacanze
estive, decide di prostituirsi diventando una squillo d'alto bordo
sotto lo pseudonimo di Léa, il nome della nonna materna. Durante un
incontro con uno dei suoi clienti, accadrà un fatto che cambierà
inesorabilmente la sua vita.
François Ozon torna a
suddividere una propria opera in capitoli così come aveva fatto per
5x2. Questa volta non segue cronologicamente al contrario il
progressivo deteriorarsi di una coppia. Sono le stagioni, con il loro
procedere dall'estate alla primavera, che segnano qui il passaggio
all'età adulta di Isabelle. Per questa indagine, in cui mostra di
possedere un'acuta capacità di indagine socio-psicologica, utilizza
un elemento della cultura che molti ritengono (spesso a torto)
'bassa': la canzone della cosiddetta musica leggera.
François Ozon. Nato e cresciuto a Parigi, figlio di René
Ozon, professore di biologia, e Anne-Marie Ozon, insegnante, ha un
fratello, Guillaume, e una sorella di nome Julie. Da giovane inizia a
lavorare come modello,[1] ma ben presto si appassiona alla settima
arte, si laurea in storia del cinema nel 1993 alla scuola di cinema
La Fémis, in quegli anni inizia a realizzare un elevato numero di
cortometraggi, fino al 1998, quando debutta con il suo primo
lungometraggio. Sitcom - La famiglia è simpatica, film da toni
grotteschi, lo pone all'attenzione come uno dei più interessanti tra
i nuovi autori del cinema francese. La sua fama si consolida grazie a
pellicole come Amanti criminali e Gocce d'acqua su pietre roventi,
quest'ultima basata su un'opera scritta da Rainer Werner Fassbinder
dal titolo Tropfen auf heisse Steine.
Nel 2000 dirige Sotto la sabbia, primo film della cosiddetta Trilogia
del Lutto, che continua nel 2005 con la pellicola Il tempo che resta
e si conclude nel 2009 con Il rifugio. Ma il successo internazionale
arriva nel 2002 con 8 donne e un mistero, dove raduna diverse
generazioni di attrici francesi, tra cui Catherine Deneuve, Fanny
Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen, e
grazie ad un miscela di diversi generi, che vanno dalla commedia,
passando al giallo e al musical, fino al melodramma, Ozon confeziona
uno dei suoi film più noti al grande pubblico.
Nel 2007 dirige Angel - La vita, il romanzo, prima produzione girata
in lingua inglese, pellicola dalle ambientazione ottocentesche in cui
affida il ruolo da protagonista all'attrice britannica Romola Garai.
Nel 2009, invece, dirige la fiaba Ricky - Una storia d'amore e
libertà, presentato alla 59ª edizione del Festival di Berlino.
Nel 2010 torna a dirigere Catherine Deneuve in Potiche - La bella
statuina con Gérard Depardieu e Fabrice Luchini: il film, candidato
al Premio Magritte, viene presentato alla 67ª Mostra internazionale
d'arte cinematografica di Venezia.
Ozon è apertamente gay,[2][3] e i suoi film sono spesso
caratterizzati da persone e storie LGBT.
con Edoardo Leo, Valeria Solarino,
Valerio Aprea, Paolo Calabresi
It. 2014 - 100'
Pietro Zinni non si
vede rinnovare l'assegno di ricerca universitaria da una commissione
incompetente. Decide così di sintetizzare una droga non catalogata
dal Ministero della Salute e per questo perfettamente legale. Con
l'aiuto di alcuni coetanei intelligenti e preparati, ma, come lui,
ridotti a lavori precari, inizia un fiorente spaccio della sostanza.
Ma la cosa prenderà loro la mano...
Nell’esordio dietro la
macchina da presa del giovane salernitano Sydney Sibilia c’è un
po’ di tutto. Dai classici come La banda degli onesti di
Mastrocinque fino a fenomeni contemporanei come la fortunatissima
serie evento Breaking Bad, Smetto quando voglio si
conferma sin dai primi fotogrammi un’opera prima sinceramente
divertente, capace, con intelligenza, di giocare con le citazioni e
una comicità elaborata che molto deve all’esperimento Boris
(in televisione e al cinema).
Il regista. Sydney Sibilia inizia a realizzare cortometraggi insieme
all'amico Fabio Ferro nella loro nativa Salerno. Nel 2005 vincono
molti concorsi con Iris Blu. Nel 2007 si trasferisce a Roma e
successivamente realizza altri due cortometraggi di successo, Noemi
(2007)[1] e Oggi gira così (2010)[2], quest'ultimo prodotto dalla
Ascent Film e scritto insieme a Valerio Attanasio. Sempre con Valerio Attanasio, scrive la sceneggiatura della sua opera
prima Smetto quando voglio. Il film, prodotto dalla Fandango di
Domenico Procacci, dalla Ascent Film di Matteo Rovere e da Rai
Cinema, viene distribuito nelle sale cinematografiche nel febbraio
2014[3][4], riscuotendo un successo sorprendente e ottenendo 12
candidature ai David di Donatello.
A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen con Oscar Isaac, Justin Timberlake, John Goodman, Adam Driver Usa, 2013 - 105'
New York 1961. Llewyn
Davis è a un bivio. La musica non riesce a dargli da vivere e i
problemi personali incalzano. Sopravvive solo grazie all'aiuto di
qualche amico o sconosciuto, accettando piccoli lavoretti. Le sue
disavventure lo portano un giorno in un deserto Chicago Club per
un’audizione di fronte a Bud Grossman…
Un concentrato di
emozioni, filtrate dal talento autoriale e pregne del grottesco
tipico del loro cinema. Le risate, le bizzarre espressioni dei
personaggi, le atmosfere ipnotiche e i movimenti di macchina
costantemente pieni di idee sono garantiti in A proposito di
Davis, il nuovo lavoro dei Fratelli Coen.
OffiCinema: america & musica Omaggio a Violeta Parra
Il secondo appuntamento di OffiCinema con il ciclo "america&musica" è dedicato a Violeta Parra, cantautrice, poetessa e pittrice cilena che sta nel cuore della cultura latinoamericana con almeno una canzone, la celebre "Gracias a la
vida, Que me ha dado tanto". A lei è stato dedicato un film biografico di grande successo.
Violeta Parra è stata una donna generosa, geniale ed inquieta. Di
carattere soggetto ad allegrie irresistibili e a terribili
depressioni improvvise, ha sempre avuto chiaro quale fosse il compito
che si era prefisso. Del folklore diceva: "Non lo intendo come
una sopravvivenza archeologica isolata che si sviluppa come cultura
dominata nei confronti di una cultura dominante, ma come un fenomeno
culturale vivo che corrisponde a determinate forme sociali e che si
trasforma o si annulla in funzione di tale corrispondenza".
"Gracias a la vida" è la canzone per la quale diviene nota
in tutto il mondo. Tradotta in molte lingue è senza dubbio uno delle
più celebri canzoni latino americane. Ne esiste anche una versione
italiana, cantata da Gabriella Ferri, che è unita a Violeta Parra
anche per il tragico destino finale della propria vita, e cioè la
scelta del suicidio.
La biografia di Violeta Parra è costellata da molti eventi da
ricordare e da un finale appunto oscuro. Nasce il 4 Ottobre 1917 a
San Carlos, nel sud-est del Cile. Fin da bambina si avvia alla
composizione, tuttavia senza accostarsi a scuole o conservatori.
Senza dubbio importante è stata in questa prima fase l’influenza
del padre, maestro di musica. Non rinnegherà mai le proprie umili
tradizioni musicali, anzi diventerà un vessillo della ricerca e del
mantenimento della cultura musicale e popolare cilena. Per
sopravvivere svolge i lavori più disparati, tra cui cucinare
frittelle, lavorare in un circo. Nel frattempo da anche lezioni di
cueca, il ballo nazionale cileno. Contemporaneamente si dedica anche
ad altre attività artistiche, come la ceramica e la tappezzeria. I
suoi quadri su iuta sono stati esposti tra l'altro anche al museo del
Louvre.
Dal matrimonio col ferroviere Luis Cerneda verranno al mondo Isabel e
Angel, che contribuiranno negli anni a sviluppare il lavoro già
iniziato e tracciato dalla madre in ambito musicale. A partire dal
1954 inizierà a viaggiare anche molto per il mondo, soprattutto nei
paesi dell’Est Europa, dopo essersi avvicinata al partito comunista
cileno. Tragica è la sua morte: il 5 febbraio 1967 decide di porre
fine ai suoi giorni dentro ad un teatro. Si sono spese molte
interpretazioni per spiegare il gesto: c’è chi sostiene che
Violeta soffrisse per motivi di lavoro, c’è chi dice che non si
sentiva pronta a lottare nel nuovo clima di fervore rivoluzionario
che precedeva il ’68, c’è chi sostiene che fosse l’amore
tormentato per l’antropologo svizzero Gilbert Favre a provocarle
angustia di vivere.
(da
“Cultiralatina.it”)
Un gioiellino raro questo Violeta Parra went to heaven del regista
cileno Andrés Wood sulla grande artista cilena morta suicida nel
1967, e in uscita il 4 luglio nei cinema in Italia. L'abilità, o
forse la fortuna, di Wood è stata quella di trovare una interprete
eccezionale per il ruolo di protagonista. L'attrice Francisca Gavilàn
è infatti una straordinaria Violeta, le somiglia moltissimo, suona e
canta tutte le canzoni della colonna sonora. Il film, che si avvale
anche dell'eccellente fotografia (in bianco e nero e a colori) di
Miguel Ioan Littin (figlio di uno dei più noti registi cileni),
utilizza come filo conduttore un'intervista che lei concesse alla tv
argentina nel 1962. E ne ricostruisce la vita basandosi sulla
biografia che di Violeta Parra scrisse il figlio Angel. Dai viaggi
attraverso il Cile alla ricerca di vecchie canzoni della cultura
popolare orale che altrimenti sarebbero andate perdute; ai lunghi
soggiorni in Europa (Polonia e Francia) che la renderanno famosa con
l'esposizione dei suoi dipinti e dei suoi arazzi al Museo del Louvre;
fino al teatro-tenda che costruì ai piedi delle Ande, fuori
Santiago, e che nei suoi progetti doveva diventare l'Università del
Folklore.
Il film di Andrés Wood con Francisca Gavilan nel ruolo di Violeta
Parra, cantante, poetessa e pittrice cilena scomparsa nel 1967 alla
quale si deve un'importante opera di recupero e diffusione della
tradizione popolare del Cile in chiave di denuncia e la protesta per
le ingiustizie sociali. Il film, del quale Repubblica.it vi propone
questa clip in anteprima, è tratto dal libro "Violeta Parra è
andata in cielo" di Angel Parra, figlio dell'artista.
Musicista, cantante, cantautrice (è sua l'indimenticabile Gracias a
la vida), poetessa, pittrice, scultrice, Violeta Parra è un'icona
della cultura popolare sudamericana. Nel film il regista Andrés Wood
si concentra soprattutto sul personaggio più privato. Gli amori, i
mariti, i tre figli, le passioni, le illusioni e i drammi, fino
all'amore per il flautista e ricercatore svizzero Gilbert Favre che
la porterà al suicidio. Uno sguardo molto intimo, epico e
struggente, che - ha sottolineato qualche critico - forse sorvola un
po' troppo sul contesto. Dalle battaglie politiche della Violeta
comunista, incompresa e combattuta in Cile; all'influenza decisiva,
sulla sua formazione, di suo fratello Nicanor, a sua volta grande
poeta e intellettuale; all'ultima stagione della sua vita, quando
insieme alla fine della sua relazione con Favre, Violeta soffrirà
del disinteresse del Cile di allora per la sua creatività e il suo
genio.
Ma grazie alla recitazione di Francisca Gavilan il film di Wood
riesce a disegnare una bellissima Violeta: volitiva, appassionata,
tormentata. Il figlio Angel Parra ha raccontato di essere stato
costretto più di una volta ad abbandonare il set delle riprese
emozionato fino alle lacrime perché nel volto di Francisca vedeva
rivivere sua madre. Ed è questo forse il complimento più bello per
un film che ha voluto resuscitare un mito tanto universale quanto, a
suo modo, ignoto. Uscito nel 2011, Violeta Parra went to heaven ha
già ottenuto un grande successo di pubblico ed è stato candidato
all'Oscar come miglior film straniero nel 2012. D'altra parte Andrés
Wood non è, per la cinematografia latinoamericana, uno sconosciuto.
È sua una delle opere più intense e apprezzate sugli anni di
Allende e Pinochet: Machuca (girato nel 2004), che racconta con
grande tenerezza la vita di due ragazzini in Cile alla vigilia del
colpo di Stato del 1973.
OffiCinema: america & musica Omaggio a Clint Eastwood
Il terzo incontro di OffiCInema dedicato a "america&musica" non poteva essere che per Clint Eastwood, che col suo penultimo film, Jersey Boys, ha dedicato al "grande paese" un ennesimo ritratto musicale attraverso la storia (in musical) di Frankie Valli e della sua celebre band.
Da qualche parte nel mondo esiste sicuramente un ritratto di Clint
Eastwood che invecchia al posto del diretto interessato: non si
spiega altrimenti come un signore di 84 anni riesca a sfornare un
film dietro l’altro non perdendo, quasi mai, colpi, mettendosi
costantemente in gioco e sperimentando ogni volta generi differenti
tra loro. Dopo i fasti da star del cinema vissuti grazie ai film di
Sergio Leone, dal 1971, con Brivido nella notte, il californiano
dagli occhi di ghiaccio Eastwood è passato dietro la macchina da
presa e da allora non si è più fermato: 37 le pellicole girate fino
a oggi, l’ultima delle quali è American Sniper con protagonista
Bradley Cooper, in uscita il prossimo anno. Prima di vedere Cooper
nei panni di un militare della marina americana, tocca però a
Frankie Valli e ai suoi The Four Seasons far scoprire al pubblico
l’ennesima scommessa riuscita di Eastwood con Jersey Boys.
New Jersey, primi anni 50: Francesco Castelluccio (John Lloyd Young),
è un giovane apprendista barbiere italoamericano, con il mito di
Frank Sinatra e la passione per il canto; Tommy DeVito (Vincent
Piazza) è un criminale pieno di intraprendenza e voglia di vivere:
amici fin da ragazzi, i due, insieme alla conoscenza comune Nick
Massi (Michael Lomenda), mettono su un gruppo, i Four Lovers,
supportati dal gangster locale Gyp DeCarlo (Christopher Walken), boss
con un debole per le belle voci. Destreggiandosi tra un colpo e
un’uscita di galera, i tre riescono a distinguersi dal resto della
scena musicale locale quando incontrano, seguendo il consiglio della
futura star del cinema Joe Pesci, Bob Gaudio (Eric Bergen), pianista
e compositore. Grazie alla particolarissima voce di Frankie, che si
ribattezza Valli, e all’estro di Bob, il gruppo, che ora si fa
chiamare The Four Seasons, riesce a entrare in contatto con il
produttore Bob Crewe (Mike Doyle) e a solcare la porta del tempio
della musica americana di quegli anni, il Brill Building di New York,
trampolino di lancio per il loro grande successo.
Criminalità, provincia americana, musica, passione e voglia di
sfondare: l’ambientazione di Jersey Boys sembra toccare molte corde
del cinema di Martin Scorsese, con i personaggi che parlano
direttamente allo spettatore, la musica travolgente e la realtà
quotidiana di chi vive la strada pericolosamente. Jersey Boys non è
però una versione musical di Quei bravi ragazzi: trovando il giusto
equilibrio tra la biografia, il film musicale, la commedia e momenti
più drammatici, Eastwood confeziona una pellicola che affronta più
generi, tutti accomunati dal ritmo travolgente e dal potere
universale della musica. Autore in grado di affrontare generi agli
antipodi, dal film di guerra come Lettere da Iwo Jima (2006), a
pellicole sulla boxe come Million Dollar Baby (2004), passando per il
romantico I ponti di Madison County (1995) fino al tuffo nel
soprannaturale di Hereafter (2010), con Jersey Boys Eastwood non si
limita al semplice biopic, come già accaduto per Invictus (2009),
storia di Nelson Mandela, e J. Edgar (2011), in cui ha parlato del
fondatore dell’FBI, ma mette il cinema e i suoi mezzi espressivi al
servizio della musica. Da sempre grande appassionato di musica,
soprattutto di jazz, Eastwood è stato il musicista country
protagonista del suo Honkytonk Man (1981), ha raccontato la storia
del sassofonista Charlie Parker in Bird (1988), diretto uno dei
frammenti della serie di documentari Blues (2003), progetto voluto da
Martin Scorsese, e composto le musiche di molti dei suoi film, come
Mystic River (2003) e Gran Torino (2008): non stupisce dunque che il
regista californiano abbia voluto raccontare la storia di un gruppo
che ha fatto la storia della musica americana.
Affrontando la storia con il suo inconfondibile stile classico, ma
ammorbidendo la durezza cui ci ha abituato nelle sue pellicole più
drammatiche, Eastwood usa la voce di Valli e dei suoi amici per
raccontare un percorso di riscatto personale e desiderio di rivalsa,
non facendo l’elogio spassionato di questi artisti (fatto non
scontato se si pensa che tra i produttori esecutivi del film figurano
gli stessi Frankie Valli e Bob Gaudio), ma presentandoli come esseri
umani normali, con i loro difetti, gli errori e le disgrazie che
colpiscono chiunque, benedetti però da un talento fuori dal comune e
da una forza di volontà in grado di trasformare anche la peggiore
delle sofferenze in qualcosa che diventa meno doloroso grazie alla
magia che sono in grado di creare. Canzoni immortali come Big Girls
Don’t Cry, Walk Like a Man, Rag Doll, Sherry e Can’t Take My Eyes
Off You diventano il faro e lo scopo in grado di riscattare una vita
intera, così come lo erano gli incontri sul ring per Frankie Dunn
(Hilary Swank) in Million Dollar Baby, il senso di giustizia di Walt
Kowalski in Gran Torino e la fede incrollabile nel futuro di
Christine Collins (Angelina Jolie) in Changeling (2008): uomini e
donne come tutti, in grado però di fare cose straordinarie.
Per raccontare la storia di questi ragazzi del New Jersey, Eastwood
ha scelto di ingaggiare il cast originale del musical, aggiungendo al
gruppo Vincent Piazza, il Lucky Luciano della serie Boardwalk Empire,
nel ruolo di Tommy: una scelta vincente, dato che tutti i
protagonisti danno il meglio di sé, sia dal punto di vista
recitativo che canoro, essendo stati chiamati anche a cantare in
prima persona le canzoni dei Four Seasons. Nota di merito anche per
Christopher Walken e Mike Doyle che, nei panni rispettivamente del
gangster DeCarlo e del produttore Crewe, offrono i maggiori spunti
comici del film. Per quanto riguarda la regia Eastwood sceglie la via
della semplicità, facendo parlare la musica, concedendosi però due
momenti da maestro: il carrello verticale che ci porta all’interno
del Brill Building e ci mostra come in ogni piano dell’edificio
stia nascendo un nuovo genere musicale fondamentale, e la scena
finale, in cui viene allestito l’unico vero trascinante numero da
musical della pellicola.
Anche se non sarà ricordato come uno dei massimi capolavori di
Eastwood, Jersey Boys colpisce nel segno e proietta il pubblico negli
anni 50, facendogli sentire il calore dei riflettori del palcoscenico
e gli odori delle strade del New Jersey, grazie alla mano sicura e
inconfondibile del regista e al groove irresistibile della musica di
Frankie Valli e soci.