Proiezioni presso la Sala Chaplin, in Via Plateja 142, Taranto
Orario Spettacoli: 18.00 – 21.00
Quota sociale: Adulti € 25.00, Studenti € 22.00
La tessera sociale si può sottoscrivere presso la sede del Cinecircolo nelle serate di programmazione delle attività.
Tutte le proiezioni avranno luogo di mercoledì
Il programma potrà subire delle variazioni per cause di forza maggiore
18 gennaio
Joy
di David O. Russell
Joy
di David O. Russell
Con Jennifer Lawrence,
Bradley Cooper, Robert De Niro
Usa, 2015
Durata: 124'
Drammatico
La storia turbolenta
di una donna, Joy, e della sua famiglia attraverso quattro
generazioni: dall’adolescenza alla maturità, fino alla costruzione
di un impero imprenditoriale che sopravvive da decenni.
Cos'è successo al "sogno
americano", letteralmente fatto a pezzi da un padre che
distrugge la casa di carta della piccola rampolla inibendone ogni
capacità d'immaginarsi un futuro migliore? C'è come uno iato
generazionale, un'incomunicabilità interfamiliare che solo gli
sforzi titanici di una nonna idealista riescono non a colmare, ma
perlomeno ad aggirare. A fronte di opere più esplicitamente ostili
al capitalismo (finanziario) come La grande promessa, Joy,
percerti versi, può essere accostata a Steve Jobs, un
altro recentissimo biopic che individua nel privato l'origine dei
guai, dei problemi, degli affanni dei protagonisti. La famiglia è -
come in altri film di David O. Russell - l'epicentro dei terremoti,
l'occhio dei cicloni che l'attraversano, la mettono in crisi,
rischiando di minarne l'unità, d'incrinarne la solidità, di
distruggerne la fiducia. […] Joy è un melodramma biografico
piuttosto ossequiente alle regole del genere, salvo forse la scelta
della voce narrante assegnata a un personaggio (la nonna) che a metà
film muore. […]
La meccanica del racconto conosce innesti di marcia
che fanno procedere più spedito, o rallentamenti che provocano una
flessione dell'andatura, scandita da varie scene-madri che offrono il
destro ai protagonisti per esibirsi in numeri che collocano al centro
dell'attenzione. Fedele ai suoi attori preferiti [...], il regista
David O. Russell lo è anche su alcune tematiche, coi fari puntati
sulla responsabilità della famiglia per ogni tipo di crisi,
psicologica o economica, che i personaggi debbono affrontare.
Rivalità fra consanguinee come in The Fighter (cambia solo il
sesso dei contendenti), eccentricità nei rapporti interpersonali
(padre ed ex marito ospitati in cantina, nel medesimo locale) come ne
Il lato positivo, truffe tentate da vampireschi imprenditori
texani con tanto di cappellone, ma senza scrupoli, sventate da
contromosse che non concedono vie di fuga come in American Hustle.
Mario Molinari
(Segnocinema n. 198)
25 gennaio
Lo stagista inaspettato
di Nancy Meyers
Lo stagista
inaspettato
(The Intern)
di Nancy Meyers
Con Robert De Niro, Anne
Hathaway
USA, 2015
Durata: 121'
Commedia
Una società start up
che vende on line articoli di abbigliamento assume come stagista Ben
Whittaker, un vedovo settantenne annoiato dalla sua vita di
pensionato. La fondatrice della compagnia, Jules Ostin, lo accoglie
con perplessità, ma Ben saprà dimostrare il suo valore e tra i due
nascerà un'inaspettata sintonia.
Se l'espressione che lo designa è
recente, il feel-good movie o "film per stare bene" esiste
da sempre. Magistralmente rappresentato da Frank Capra, nelle ultime
stagioni è cresciuto e si è moltiplicato (vedi Il lato positivo
, St. Vincent o, in Europa, Quasi amici) incrociando a
volte il tema della terza età. Già frequentatrice del filone, la
regista e sceneggiatrice Nancy Meyers ha immaginato il seguente
soggetto. Vedovo e pensionato settantenne, Benjamin Whittaker [...]
grazie a una start-up per il riutilizzo degli anziani, diventa
stagista senior nell'e-commerce della moda. Sarà l'assistente
personale di Jules Ostin, la giovane amministratrice delegata; la
quale […], poco a poco, si rende conto di chi sia davvero il
vecchio Ben: una specie di angelo custode mandato dal cielo, pronto a
dispensare infallibili consigli a lei e ai giovani geek. La cosa
migliore di Lo stagista inaspettato è l'alchimia che si
stabilisce tra Robert DeNiro, una volta tanto interessato alla parte
che deve interpretare, e Anne Hathaway, che quasi dieci anni dopo Il
diavolo veste Prada ha fatto carriera nell'ambiente della moda.
Meyers introduce temi seri: la difficoltà d'invecchiare, sentendosi
"dismessi", in un mondo liftato e tecnologico; quella, per
una donna, di conciliare carriera e famiglia; quella di accettare la
situazione di coppia da parte del marito casalingo. […]
Bisogna
dire subito che la componente sessuale non riguarda Ben e Jules: non
si tratta, insomma, della commedia romantica inter-generazionale che
qualcuno potrebbe temere. Tutto secondo le regole, dunque; e se poi
anche il vecchietto ha diritto alla sua parte di romanticismo, la
troverà nella più matura e confacente massaggiatrice aziendale
Fiona (Rene Russo). Pur evitando i peggiori cliché in cui un film
del genere poteva incorrere, la Meyers declina il contrasto tra
generazioni in una favola morbida e benevola, piena di buoni
sentimenti, dove la vecchiaia diventa quasi una nuova giovinezza
(l'intramontabile tema americano della "seconda possibilità")
e i giovani traggono enormi vantaggi dall'interfaccia con gli
anziani. Non sarà un esempio di realismo, ma tanto meglio se Ben,
nonno super-idealizzato, comprensivo, fiero dell'esperienza quanto
aperto al cambiamento, darà una mano a rivalutare una fascia
anagrafica che oggi gode di scarsa popolarità.
Roberto Nepoti (La
Repubblica, 15 ottobre 2015)
1 febbraio OffiCinema Il Cinema di Joel & Ethan Coen
Registi e
sceneggiatori cinematografici statunitensi: Joel, nato a St. Louis
Park (Minneapolis) il 29 novembre 1954; Ethan, nato ivi il 21
settembre 1957. Nell'ambito di un lavoro tra i più originali nel
panorama cinematografico statunitense degli anni Ottanta e Novanta,
in cui appaiono perfettamente combinate le tecniche di ripresa più
sofisticate e una spiccata coscienza letteraria, appare estremamente
significativa l'evoluzione poetica ed espressiva che percorre la loro
opera. Ai primi film, strutturati sul sovvertimento e la
contaminazione delle regole narrative dei generi, è seguito un
ripensamento del puro divertissement in chiave malinconica mediante
il quale il cinema dei C. ha assunto un respiro più ampio, pur
continuando a delineare un mondo caotico e sregolato. Affermatisi con
il loro stile di inequivocabile singolarità, nel 1991 si sono
aggiudicati la Palma d'oro al Festival di Cannes per Barton Fink
(Barton Fink ‒ È successo a Hollywood) e nel 1997 il premio Oscar
per la migliore sceneggiatura con Fargo (1996).Provenienti da una
famiglia di intellettuali ebrei, dopo aver studiato al Simon's Rock
of Bard College (Massachusetts) Joel ed Ethan hanno continuato la
loro formazione seguendo rispettivamente l'Institute of Film and TV
di New York e i corsi di filosofia alla Princeton University.
L'esordio nel cinema risale al 1984 quando con Blood simple (Blood
simple ‒ Sangue facile), i due autori hanno ottenuto un insperato
successo di pubblico, dopo che in precedenza Joel aveva collaborato
con Sam Raimi e per quest'ultimo aveva scritto con Ethan la
sceneggiatura del film Crimewave (1985; I due criminali più pazzi
del mondo). In particolare, sin da questa prima opera appare
consolidato un metodo di lavoro che prevede la piena collaborazione
dei due fratelli in tutte le fasi. Se Joel è più coinvolto nella
regia ed Ethan nella produzione, i film risultano però scritti da
entrambi e, in particolare, un procedimento di annotazione
sistematica dei loro piani di ripresa fa delle sceneggiature non un
canovaccio, ma un progetto di messa in opera perfettamente funzionale
al basso budget del loro cinema indipendente. La pratica
paraletteraria della sceneggiatura ha nel loro lavoro il valore di
un'accurata fase di pre-produzione che include, nel dettaglio, ampie
didascalie, minuziosi appunti di regia, sino alla previsione del
minimo effetto sonoro, con le scene da girare predisposte in tutti i
particolari, in modo da ridurre così i costi di lavorazione e
assicurarsi il final cut. In particolare, fa da sfondo a Blood
simple, come alle altre prime commedie acide dei C., la grande
provincia statunitense, specchio di un profondo disadattamento e di
una difficile convivenza fra le minoranze che, soprattutto nei primi
film, produce un divertissement dal sapore amaro. E se l'umorismo
ebraico si rivela componente fondamentale del loro gusto per la farsa
grottesca, qualche traccia mostrano di aver lasciato nel loro stile
anche le commedie all'italiana, approssimativamente doppiate e viste
da ragazzi.
Con spirito iconoclasta, i C. attraversano così il pulp
hollywoodiano rovesciandone la logica rassicurante: in questa chiave
ironica e allucinata va letta la loro revisione dell'horror nel primo
film, come anche quella della screwball comedy nel successivo Raising
Arizona (1987; Arizona junior), e del thriller e della gangster story
in Miller's crossing (1990; Crocevia della morte). I C. della prima
fase guardano al cinema soprattutto come a un serbatoio di moduli
compositivi e narrativi, penetrati così a fondo nell'immaginario da
indurre reazioni quasi automatiche nel pubblico, le cui aspettative
vengono volutamente e puntualmente tradite: si pensi alla scelta in
Miller's crossing di uno scenario boschivo totalmente estraneo
all'ambientazione urbana richiesta da un vero noir. In questo film,
in particolare, meno straniato rispetto al genere di riferimento,
emergono comunque tutti i tratti stilistici del loro cinema:
prospettive distorte, veloci piani-sequenza, primi piani improvvisi.
Il meccanismo di distorsione e di contaminazione degli schemi
narrativi e del linguaggio risulta accentuato dalle impietose
inquadrature grandangolari, dalle riprese ravvicinate in soggettiva e
dalle brusche, vorticose plongées dei due autori, che si erano
spinti a far avventurare la macchina da presa fin dentro il cavo
orale dei protagonisti nel precedente Raising Arizona, mentre nel
successivo Barton Fink (1991) la macchina da presa viene lanciata
lungo spazi reconditi e sotterranei, come i tubi del lavandino della
modesta stanza d'hotel in cui lo sceneggiatore protagonista (John
Turturro) cerca ispirazione. In quest'opera, fondamentale per
comprendere il lavoro di deformazione accentuata del reale sempre più
indirizzata sulla strada del grottesco, il processo di scomposizione
dei generi di tradizione hollywoodiana sembra assumere le sfumature
allucinate dell'incubo, mentre la riscrittura e l'uso del déja vu si
confermano tra i principali elementi alla base del loro stile
eterodosso, in cui risultano frequenti gli omaggi ai film di Alfred
Hitchcock e Orson Welles.
Con tocco più lieve, ma egualmente
indirizzato verso una scelta intellettualistica, i C. hanno quindi
realizzato nel 1994 il funambolico The hudsucker proxy (Mister Hula
Hoop), valendosi della collaborazione di Sam Raimi, a seguito del
quale però, la miscela di glamour hollywoodiano e di slapstick
comedy è apparsa formula cinematografica fin troppo prevedibile e
non priva di una certa stanchezza anche agli occhi dei due fratelli.
Così, pur lasciando inalterato l'intreccio rocambolesco che ha la
sua fonte letteraria privilegiata nella detective story chandleriana,
con i suoi percorsi spericolati e la figura del detective come
personaggio sempre fuori parte, travolto, suo malgrado, da imprese al
di sopra delle sue possibilità, i C. hanno corretto le pose
fumettistiche dei protagonisti e gli accenti manieristici delle loro
rivisitazioni. Non a caso, a partire da Fargo sono stati abbandonati
i fondali posticci dei generi hollywoodiani e gli intricati intrecci
chandleriani sono stati trasferiti tra le nevi del Minnesota. In tale
rinnovato contesto si inseriscono personaggi schivi come la Marge
Gunderson (Frances MacDormand) di Fargo, splendida figura di donna
poliziotto, o il 'Dude' (Jeff Bridges) di The big Lebowski (1998; Il
grande Lebowski), in cui si riaffaccia l'incapacità di distinguere
ciò che è reale da ciò che è fittizio che aveva connotato Barton
Fink, in una Los Angeles congestionata dove spetta a un 'reduce'
degli anni Sessanta resistere al fanatismo consumistico che lo
circonda. I C. affidano qui a un personaggio inaffidabile il compito
poliziesco di uscire dalle trame artificiose di loschi interessi e di
violenza dei poteri occulti, provocando un'inversione di ruoli in cui
lo slacker intorpidito dalle droghe leggere assume una funzione
costruttiva che, per contrasto, ancor meglio illumina la profonda
corruzione e il disordine dei poteri mediatici e finanziari contro
cui deve battersi. Il lavoro di spostamento (di ruoli, di soluzioni
narrative), di ricontestualizzazione, di incastro e di selezione di
materiali che caratterizza i loro film, li rende nel complesso un
corpus intertestuale di intrecci abilmente dislocati dalla pagina
scritta allo schermo in cui l'uso ironico della citazione letteraria
fa affiorare per contrasto, dietro ai paesaggi quasi artici in cui
vengono ambientate alcune delle storie, una topografia letteraria
che, prima di loro, aveva collocato i disadattati nel Sud degli Stati
Uniti: da W. Faulkner a scrittrici come C. McCullers o F. O'Connor.
In O brother, where art thou? (2000; Fratello dove sei?) singolare
rilettura dell'Odissea riambientata negli anni della Depressione, le
coordinate geografiche tornano a coincidere con quelle della sempre
denunciata matrice letteraria di riferimento (la fuga dei tre
galeotti protagonisti si snoda infatti lungo il Mississippi)
contaminata da percorsi che incrociano suggestioni di vario tipo, a
partire dal titolo (esplicita citazione del titolo del film che il
protagonista di Sullivan's travel, diretto nel 1942 da Preston
Sturges, progetta di realizzare e al quale poi rinuncerà), e
compresi richiami a reali ed emblematici personaggi di quel periodo,
come il famoso gangster 'Babyface' Nelson. Nel successivo The man who
wasn't there (2001; L'uomo che non c'era) i C. hanno mostrato di
voler esasperare le modalità del citazionismo, mimando
manieristicamente il modello del noir e nello stesso tempo
straniandolo, e sospendendo in un bianco e nero polveroso l'intricato
incubo di un 'uomo senza qualità', reso alla perfezione dalla
recitazione opaca e inquietante di Billy Bob Thornton.
Una significativa
conferma della forte ispirazione letteraria sottesa alla loro opera è
il pur fugace passaggio alla narrativa di Ethan con i racconti di
Gates of Eden (1998), che non smentisce l'abilità combinatoria,
l'eclettismo e il gusto per la rivisitazione ironica mostrata dietro
alla cinepresa insieme con il fratello Joel, e ripropone la miscela
di umorismo yiddish e di screwball comedy che caratterizza i loro
film.
Daniela Daniele
(Enciclopedia del Cinema Treccani)
15 febbraio
Perfetti sconosciuti
di Paolo Genovese
Perfetti sconosciuti
di Paolo Genovese
Con Valerio Mastandrea,
Kasia Smutniak, Giuseppe Battiston
Italia, 2016
Durata: 97'
Commedia/Drammatico
Un gruppo di amici a
cena decide di testare la reciproca sincerità condividendo i
messaggi che ognuno di loro riceve sul cellulare. Quello che inizia
come un gioco porterà le quattro coppie a confrontarsi e a scoprire
di essere "Perfetti Sconosciuti".
Perfetti sconosciuti è un film
cattivo, e che sempre ne sia lodata la cattiveria. Un film che smorza
nella romanità popolare (quella de 'sti regazzini che so' cresciuti
insieme, e che ora hanno 40 anni) la prosopopea borghese del cinema
più “alto” che ha questo genere d'impianto: quello, appunto, che
ammicca al suo pubblico, con complicità intellettuale e di classe,
proprio quando vuole strappargli di dosso la sua maschera e le sue
ipocrisie. Qui, al pubblico, non ammicca nessuno, proprio no. E non
si fa quell'analisi che, vien fuori, uno dei personaggi usa come
ultima spiaggia per salvare il suo matrimonio. Qui, al massimo, si
rispecchiano un po' delle nostre colpe banali, e dei nostri fantasmi
quotidiani, e delle nostre paure più semplici e recondite: quelle
che le persone a cui vogliamo bene ci nascondano qualcosa. Cose che
ci possono fare del male ma che vogliamo terribilmente,
masochisticamente, conoscere. Perché il gioco che giocano questi
qui, durante un'eclisse di luna, è terribilmente masochista, e lo
sanno tutti. Il sadismo no, non c'è: quello sì che sarebbe stato
terribilmente borghese. Si percepisce benissimo, e si apprezza,
l'affiatamento del gruppo degli attori. Nonostante il gioco dei
controcampi di Genovese spinga tutti a estremizzare le reazioni non
verbali, a esagerare con le faccette, c'è fluidità, e un'intesa che
garantisce verosimiglianza. […]
Forse, più che un testo sui
fantasmi e le spade di Damocle della coppia, Perfetti sconosciuti
è un film sull'amicizia, tanto quella al maschile quanto quella al
femminile (basta stare attenti alle interazioni trasversali alla
coppia, e diventa subito ovvio). E, ancora più sotto, un film
sull'ipocrisia della società italiana, che passa per i
comportamenti, certo, ma anche per il linguaggio.L'ipocrisia di un
politicamente corretto che nel film di Paolo Genovese viene
accantonato senza proclami, lasciando spazio a un parlare sfacciato e
leggero, volgare e pudico, carico di livore, dolore e affetto, e che
gravita attorno a un tavolo con spirito davvero scoliano.
Federico Gironi
(ComingSoon.it)
22 febbraio OffiCinema Il Cinema di Steven Spielberg
Regista e produttore cinematografico e
televisivo statunitense, nato a Cincinnati (Ohio) il 18 dicembre
1948. Insieme all'amico George Lucas, ha influito forse più di ogni
altro sull'evoluzione del cinema americano degli ultimi vent'anni del
20° sec. e dei primi del 21°, in termini sia di metamorfosi
dell'immaginario hollywoodiano sia di sviluppo delle strategie di
promozione e marketing dei film. Le sue opere hanno sancito
l'affermazione, a Hollywood, di un cinema di genere sino a quel
momento prodotto con mezzi limitati e destinato perlopiù a
spettatori adolescenti, che improvvisamente è divenuto sofisticato,
spettacolare, costoso, ricco di effetti speciali e soprattutto
pensato per un pubblico di dimensioni planetarie. La tendenza di S. a
indulgere nel sentimentalismo e nella retorica, spesso stigmatizzata
dalla critica, nasce dal desiderio di costellare i propri film di
situazioni di forte impatto emotivo che risultino, al contempo, in
qualche modo universali, in grado dunque di commuovere e coinvolgere
varie tipologie di spettatori. È il caso della 'resurrezione'
dell'alieno in E.T. the extra-terrestrial (1982; E.T.
l'extra-terrestre), dei bambini intrappolati in una stanza insieme a
feroci dinosauri in Jurassic Park (1993), dell'epilogo di Schindler's
list (1993; Schindler's list ‒ La lista di Schindler), della morte
del capitano Miller in Saving private Ryan (1998; Salvate il soldato
Ryan). Al di là dell'argomento affrontato, S. ha in sostanza sempre
pensato al cinema come a un catalizzatore di grandi sentimenti e
forte spettacolarità. Nello stesso tempo, è stato fra i primi a
intuire che lo sfruttamento commerciale delle sue opere poteva
spingersi oltre i confini della sala e basarsi su un merchandising,
fatto di gadget e capi d'abbigliamento che rimandano a situazioni,
personaggi e frasi del film. Un'idea che ha avuto a Hollywood un
vasto seguito, inaugurando di fatto l'era dei blockbusters, e che si
trova mirabilmente sintetizzata nel parco divertimenti di Jurassic
Park, geniale esempio di film che esplicita, sul piano narrativo, le
medesime strategie di promozione che hanno contribuito a lanciarlo
sul mercato. Nella sua carriera, pluripremiata, spiccano i due Oscar
per la regia, vinti rispettivamente nel 1994 con Schindler's list e
nel 1999 con Saving private Ryan. Nel 1993 alla Mostra del cinema di
Venezia gli è stato conferito il Leone d'oro alla carriera.
Sin da giovanissimo mostrò una
spiccata predisposizione per il cinema, realizzando una serie di film
amatoriali, girati prima in 8 mm e più tardi in 16 mm. Il suo primo
film in 35 mm, il cortometraggio Amblin' (1969), attirò l'attenzione
della Universal Pictures, che gli offrì un contratto di sette anni
per la propria sussidiaria televisiva, la MCA. Realizzò così, nel
biennio 1971-72, tre lungometraggi per il piccolo schermo, tra cui
l'originale Duel (1971), surreale road movie sul 'duello mortale' in
cui si trova coinvolto un automobilista, inseguito da un autotreno;
girato in soli sedici giorni e distribuito due anni dopo nelle sale
dalla Universal, ottenne un clamoroso successo di critica. Dopo un
altro road movie, The Sugarland Express (1974; Sugarland Express), su
una giovane coppia in fuga decisa a riprendersi il figlio dato in
affidamento, sulle cui tracce si scatenano imponenti forze
dell'ordine, arrivò anche il grande successo di pubblico con Jaws
(1975; Lo squalo), un thriller sapientemente costruito, che solo
negli Stati Uniti incassò 130 milioni di dollari. Da quel momento S.
si specializzò nella realizzazione di spettacolari e sofisticati
film di fantascienza e d'avventura, che riusciranno puntualmente, a
dispetto delle ingenti somme investite dalla produzione, a tradursi
in redditizie macchine da intrattenimento. Nel 1977 uscì Close
encounters of the third kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo),
film di grande impatto visivo ‒ gli effetti speciali vi giocano un
ruolo di primo piano ‒ in cui S. affronta per la prima volta il
tema dell'incontro tra terrestri ed alieni, declinandolo in positivo,
attraverso un'altra figura caratteristica del suo cinema, quella
della persona normale (Richard Dreyfuss) che diviene protagonista di
una vicenda straordinaria. Dopo la parentesi di 1941 (1979; 1941 ‒
Allarme a Hollywood), incursione nel genere comico-demenziale che non
riscosse l'atteso successo di pubblico (anche se divenne un cult
movie tra le giovani generazioni, grazie soprattutto alla presenza di
John Belushi), S. riconquistò le grandi platee con Raiders of the
lost ark (1981; I predatori dell'arca perduta), film che inaugura la
saga dell'avventuriero-archeologo Indiana Jones (interpretato da
Harrison Ford), di cui negli anni Ottanta sarebbero usciti gli altri
due fortunati capitoli, Indiana Jones and the temple of doom (1984;
Indiana Jones e il tempio maledetto) e Indiana Jones and the last
crusade (1989; Indiana Jones e l'ultima crociata), tutti declinati
sull'immaginario fumettistico, ma anche costruiti su una sottile
ironia di stampo cinefilo.
Il motivo dell'incontro con forme di
vita extraterrestri ritorna invece in E.T. the extra-terrestrial,
altro film di grandissimo successo, dove l'alieno (il famoso pupazzo
creato da Carlo Rambaldi) diviene protagonista, con sorprendenti
effetti di immedesimazione. Ha avuto invece un risultato deludente,
se non altro dal punto di vista commerciale, il seguente The color
purple (1985; Il colore viola), tratto dal romanzo di A. Walker, con
cui S. ha affrontato un altro tema significativo della sua
filmografia, quello della segregazione razziale, ripercorrendo
l'odissea esistenziale della protagonista. Un esito analogo è
toccato ai due film successivi, in cui l'epica romantica e
sentimentale si sposa con una grande maestria formale: Empire of the
Sun (1987; L'impero del sole), tratto da J. Ballard e ambientato
durante la Seconda guerra mondiale (un periodo storico su cui S.
tornerà a più riprese nel corso degli anni Novanta), e Always
(1989; Always ‒ Per sempre), remake di A guy named Joe (1943) di
Victor Fleming, in cui S. sperimenta la commistione tra genere
sentimentale e fantastico.
Gli anni Novanta sono stati inaugurati
dalla regia di Hook (1991; Hook ‒ Capitan Uncino), trasposizione
sul grande schermo della favola di Peter Pan, operazione tutt'altro
che sorprendente per un regista che ha sempre avuto un occhio di
riguardo per i giovani e che ha dichiarato in più di un'occasione di
aver sovente realizzato i film che avrebbe voluto vedere da ragazzo.
Poi, con l'enorme successo di Jurassic Park, con il quale ha voluto
'riportare in vita' i dinosauri ‒ inaugurando una saga proseguita
con The lost world. Jurassic Park (1997; Il mondo perduto ‒
Jurassic Park) diretto dallo stesso S. e con Jurassic Park III (2001)
di Joe Johnston ‒ ha rafforzato la sua posizione nell'establishment
hollywoodiano. Il 1993 è stato però anche l'anno di Schindler's
list, film in bianco e nero sulla Shoah e sul valore della memoria
che, nel ricostruire la vicenda di Oskar Schindler (l'industriale
nazista che riuscì a salvare più di mille ebrei), ha inaugurato una
nuova stagione dedicata dal regista alla rievocazione, in forma
comunque spettacolare, di eventi storici traumatici come il dramma
dello schiavismo, raccontato con grande partecipazione in Amistad
(1997), o lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, grandiosamente
ricostruito in Saving private Ryan.
Nel 2001, con A.I. Artificial
intelligence (A.I. Intelligenza artificiale), nato da un progetto di
Stanley Kubrick, S. è ritornato alla fantascienza esplorando la
dimensione inquietante della tecnologia con la storia del piccolo
automa abbandonato, alla ricerca della 'madre'. Suggestioni che
ritornano in Minority report (2002), dall'omonimo racconto di Ph.K.
Dick, dove si descrive una società del futuro in cui regna la
giustizia preventiva, e da cui emergono profeticamente i lati oscuri
del mondo globalizzato. È invece ambientato negli Stati Uniti degli
anni Sessanta, ma altrettanto critico nei confronti della società
americana, Catch me if you can (2002; Prova a prendermi), commedia
malinconica ispirata alla leggendaria ma reale vicenda di Frank
Abagnale Jr, geniale truffatore, capace di sfruttare a suo vantaggio
gli inganni dell'apparenza e di tenere in scacco per anni il FBI.
I successi ottenuti come regista hanno
consentito a S. di giocare un ruolo da protagonista anche in ambito
produttivo, fin dal 1984, anno in cui ha fondato la Amblin Pictures,
società con cui ha finanziato, tra gli altri, film come Poltergeist
(1982; Poltergeist ‒ Demoniache presenze) di Tobe Hooper, Gremlins
(1984) di Joe Dante, Back to the future (1985; Ritorno al futuro) di
Robert Zemeckis e Who framed Roger Rabbit (1988; Chi ha incastrato
Roger Rabbit) diretto ancora da Zemeckis. Nel 1994 S. ha dato vita ‒
insieme a Jeffrey Katzenberg e David Geffen ‒ alla DreamWorks SKG,
uno studio hollywoodiano pensato e concepito sul modello delle
vecchie majors, da cui sono usciti film di grande successo.
Da ricordare anche l'iniziativa della
Shoah Foundation, avviata da S. nel 1994, dopo la realizzazione di
Schindler's list, e dedicata alla raccolta e all'organizzazione di un
vasto archivio di testimonianze audiovisive per far conoscere la
tragedia dei campi di sterminio nazisti attraverso le interviste agli
ebrei sopravvissuti.
Leonardo Gandini
(Enciclipedia del Cinema Treccani)
1 marzo
Sole alto
di Dalibor Matanic
Sole alto
(Zvizdan)
di Dalibor Matanic
Con Goran Marković,
Tihana Lazović, Nives Ivanković
Croazia/Serbia/Slovenia,
2016
Durata: 123'
Drammatico
Tre storie differenti
tra di loro, ma tutte incentrate su un amore proibito. Ambientate in
due villaggi della Bosnia e in un arco temporale di tre decenni
(1991, 2001 e 2011).
Sono i contrasti evidenti a rafforzare
il racconto del quarantunenne Dalibor Matanic, già autore di diversi
lungometraggi ma consacratosi a livello internazionale solo adesso
con Sole alto, Premio della Giuria a Cannes 2015, sezione Un Certain
Regard. Il sole splende su un fazzoletto di terra balcanica,
tinteggiando la macchia mediterranea come in un dipinto
impressionista, illumina l’orizzonte spigoloso della terra dalmata,
scalda le acque a noi familiari dell’Adriatico, indifferente
all’odio interetnico, all’inspiegabile follia umana, alla
tragedia del conflitto. Matanic sceglie l’amore declinato in tre
storie diverse, a distanza di dieci anni una dall’altra, per
raccontare le conseguenze della guerra, anzi delle guerre, perché –
come afferma l’autore, regista e sceneggiatore - a ogni latitudine si consumano le
stesse tragedie, originate da futili incomprensioni, da cieche
discriminazioni, dalla scarsa tolleranza per le diversità, che
diventano poi baluardi nelle lotte politiche. Senza ricorrere a
sequenze belliche, lontano anzi dai teatri di guerra, lasciati fuori
campo, il regista dipana un filo narrativo robusto per collegare
momenti diversi della recente storia di quella che fu la Jugoslavia.
(…) Matanic diventa un burattinaio, utilizza le stesse marionette
per innescare nel terzo atto un augurante futuro, una
terza possibilità tra due personaggi che si sono rincorsi e che
nonostante i terremoti della Storia si ritrovano per chiudere il
cerchio nell’amore reciproco. Ma, come non accadeva in Prima della
pioggia, è un cerchio che chiudendosi trova coincidenza, perché,
se nel 1994, in piena guerra civile, la ragione lasciava il posto
all’incubo mettendo in crisi la percezione di spazio e tempo,
adesso, che il sole alto è tornato a splendere sui Balcani, il tempo
è un amico che definisce ripartenze. Se per Manchevski la pioggia
arrivava sul finale a lavare temporaneamente i peccati degli uomini,
per Matanic il tramonto è speranza di un sonno sereno e ristoratore.
Alessandro Leone (Il
Ragazzo Selvaggio n. 117)
8 marzo
La grande scommessa
di Adam McKay
La grande scommessa
(The Big Short)
di Adam McKay
con Christian Bale, Steve
Carell, Ryan Gosling
Usa, 2015
Durata: 130'
Drammatico
Il film, ispirato ad
eventi e personaggi reali, segue le storie simultanee di tre gruppi
di persone che scoprono l'arrivo della crisi finanziaria del
2007-2010 e scommettono sul suo avvento, ricavandone enormi profitti.
Sono due gli ostacoli con
cui si è voluto confrontare il regista Adam McKay nel suo La
grande scommessa. Portare sul grande schermo il saggio di Michael
Lewis The Big Short – Il grande scoperto e trasformare una
trattazione tecnica dell’alta finanza statunitense in un racconto
teso, ben giostrato, in cui emerge la coralità dell’azione e la
solitudine dell’intuizione. La scommessa del titolo, infatti, è
quella contro il sistema messa a segno da alcuni analisti finanziari,
banchieri, giovani speculatori e vecchi geni di Wall Street che,
ognuno a modo suo, scoprono le incongruenze del mercato immobiliare
americano, considerato il settore più solido dell’intera economia.
Senza soffermarsi esclusivamente sui tecnicismi inafferrabili, McKay
prende dei personaggi reali, in una storia reale, e ne fa un affresco
ampio, dove, però, tutti i punti sono facilmente riconducibili al
discorso di partenza e alla tesi finale. Niente tecnicismi fini a se
stessi, niente virtuosismi di parole e immagini, ma un approccio
lucido, chirurgico, di scomponimento e ricostruzione minuta dei fatti
attraverso la loro amplificazione.
Come fosse una commedia demenziale
(e infatti McKay ha una solida esperienza in campo, come
collaboratore di Will Ferrell e del Saturday Night Live, e
regista di film come Fratellastri a 40 anni, Poliziotti di
riserva, Anchorman) cui viene abilmente sottratto
l’effetto non sense. Perché è tutto vero e tutto folle. E così
lo sguardo in macchina dei diversi “attori” permette allo
spettatore di entrare letteralmente nei meccanismi contorti e di
apprendere in modo semplice come sono andate le cose, con la più
banale delle leggi secondo cui ogni gesto, non solo produce un
effetto, ma ha delle conseguenze nel tempo e nello spazio. Al posto
del ghigno soddisfatto, ci resta, così, il suo esatto opposto.
L’amara consapevolezza di essere complici o spettatori della
catastrofe economica. Con un colpo da maestro, McKay evita ogni tipo
di retorica, al punto che i suoi “guerrieri senza macchia”, i
cosiddetti sabotatori del sistema finiscono per trarre profitto da un
evento che toglierà casa e lavoro a migliaia di persone.