17 febbraio

OffiCinema
Racconti di racconti:
il cinema di Matteo Garrone




















Matteo Garrone, 
il coraggio di una scelta impossibile

intervista di Adriano Ercolani

Dei tre film italiani presentati a Cannes (e tornati purtroppo a mani vuote), Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone è forse il meno riuscito, ma sicuramente il più coraggioso. Per questo abbiamo tifato per lui.  Nanni Moretti con Mia madre ha realizzato un film serio, solenne, rigoroso, a tratti commovente, ma perfettamente coerente (dallo stile al cast) con la precedente produzione dell’autore. Paolo Sorrentino con Youth da un lato ha confermato il suo grande talento visuale e aggiunto un altro tassello alla sua visione poetica, dall’altro però ha dato ragione ai suoi detrattori, indugiando in scelte di grande compiacimento manieristico. Garrone ha spiazzato tutti: ha affrontato tematiche apparentemente distanti anni luce dal suo percorso, mantenendo però in profondità la sua identità registica, semplicemente spostando su un altro piano immaginario la sua ricerca artistica ed esistenziale.
L’idea stessa merita un plauso incondizionato per almeno tre motivi distinti: in primo luogo il coraggio di affrontare un genere (il fantastico/fiabesco) talmente ignorato dalla nostra storia cinematografica da essere percepito come tecnicamente impossibile, dunque escluso a priori (se cerchiamo un precedente, a parte i pioneristici esperimenti di Margheriti negli anni ’60,  incontriamo solo Fantaghirò!);  l’intuizione di riscoprire un’opera come Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, oscuro capolavoro del primo Seicento, tra le più grande raccolte di racconti dopo il Decamerone, forse la più importante raccolta di fiabe italiana, a cui hanno attinto i più grandi autori di genere successivi (pensiamo a Cenerentola di Perrault o a Raperonzolo dei Fratelli Grimm); lo sguardo poetico coerente e originale che, invece di calare il fantastico nel quotidiano, racconta la dimensione fantastica con spietato realismo, quasi una versione allucinatoria e rovesciata dei racconti di Chesterton, un approccio che, almeno teoricamente, avrebbe affascinato Jorge Luis Borges.
Ma Garrone non solo ha avuto l’intuizione, soprattutto ha avuto l’ardimento di crederci e la costanza per realizzarla, rischiando moltissimo in prima persona.  Artisticamente e finanziariamente.
In un momento in cui nelle sale c’è un film come Mad Max: Fury Road (degno candidato al premio di miglior film d’azione di sempre), forte di un budget di 150 milioni di dollari, per un regista affermato in tutt’altro genere decidere di girare e co-produrre un film fantastico in Italia vuol dire essere visitati da due energie primordiali e potentissime: amore e follia. La sfida era impossibile: dunque, necessariamente persa in partenza. E come dichiariamo comunque di  ammirare il regista, dall’altro non possiamo mentire ai nostri lettori: l’opera, pur nel tentativo ammirevole, non è esente da difetti evidenti. Il film offre indubbiamente momenti di potente suggestione, a cui alluderemo senza rovinare la visione a coloro che ancora lo hanno visto. Ci riferiamo nel dettaglio ad alcune sontuose inquadrature di magnifici scorci naturali (il film è girato interamente in Italia), all’inseguimento dell’Orco e al finale a sorpresa,  alla visione preraffaellita della fanciulla nella foresta, più in generale all e variazioni sul tema della metamorfosi e del labirinto.
Ciò nonostante, francamente, al termine della visione ci ha assalito un profondo senso di disorientamento. Molti sono gli aspetti che non ci hanno convinto dell’opera: l’esasperazione  a tratti forzata dell’aspetto grottesco delle storie, la dilatazione ipnotica dei tempi narrativi, il contrasto tra la ricerca del realismo e l’artefazione della recitazione teatrale, le prestazioni sottotono dei grandi nomi, in particolare di un Vincent Cassel a tratti caricaturale (mentre Garrone si conferma erede di Pasolini nel trarre oro da attori  pressoché sconosciuti, la giovane Bebe Cave nel ruolo di Viola è nel finale impressionante), la carenza strutturale di un intreccio narrativo ben ordito, una diffusa sensazione di aridità, di empatia mancata, di eccessiva asciuttezza, un ritmo troppo poco serrato che acquista senso solo nel finale, con lo scioglimento naturale delle storie. Eppure…
Eppure, nonostante tutto questo,  ci sentiamo di ringraziare Garrone: ringraziarlo per il rarissimo coraggio, per l’ambizione sfrontata e lo slancio visionario. Al netto dei difetti, Il Racconto dei Racconti è un’opera da difendere, sostenere e supportare. È il tentativo titanico (e come tale destinato al fallimento) di uscire al di fuori delle convenzioni industriali, di evadere dalla prigione dei luoghi comuni e degli stereotipi imperanti nel cinema nostrano. Non possiamo più lamentarci delle solite commedie sdolcinate, delle serie tv con preti o carabinieri e dei cinepanettoni sguaiati, se per una volta che qualcuno prova a spezzare le sbarre della paralisi cinematografica italiana storciamo il naso. Per cui, vi invitiamo ad andarlo a vedere al cinema. Siete ancora in tempo.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Matteo Garrone durante la prima, trionfale edizione dell’ARF!, il festival di fumetto tenutosi a Roma dal 22 al 24 Maggio. L’occasione è stata la conferenza del venerdi con Davide De Cubellis e Leonardo Cruciano, rispettivamente l’uno storyboard artist e character design, l’altro visual designer e responsabile degli effetti speciali e digitali del film. Garrone ha confermato una nostra antica teoria, da noi denominata “Teorema Guccini”: posto che l’umiltà è il sigillo dei grandi, più un autore sarà importante, affermato, autenticamente grande, più sarà disponibile, gentile e affabile. Come lo è, proverbialmente, Guccini, così lo è stato con noi Garrone.
Visto il tema e i protagonisti dell’incontro, volevo chiederti in primo luogo: qual è stata l’importanza del loro apporto, sia quello di De Cubellis con lo storyboard che quello di Cruciano nel dare corpo alle creature fantastiche del film?
“Il lavoro di storyboard sicuramente serve ad immaginare un’ipotesi di come poi si potrà girare la scena nello spazio. Grazie ad esso si inizia a riflettere sui movimenti di macchina e su qual è la scelta giusta per raccontare quella scena. Il lavoro con Cruciano è, invece, di concept. Si inizia partendo da un lavoro di ricerca di immagini, sia pittoriche che legate ad animali particolari. Successivamente, c’è uno sviluppo artigianale grazie al quale  queste creature prendono forma, con delle correzioni in corso a seconda di ciò che noi riteniamo giusto. Sicuramente fondamentale è stato il lavoro artigianale. Con Cruciano c’era il desiderio di realizzare un lavoro sugli effetti che fosse molto materico, non digitale, molto artigianale. Il desiderio era che questi animali potessero essere “reali” sul set. Su questo ci siamo trovati subito in sintonia. Gli effetti dovevano esserci, ma al tempo stesso dovevano essere in qualche modo invisibili. Non bisognava percepire ostentazione o ridondanza del digitale. Avevamo alcuni riferimenti pittorici, ad esempio Salvator Rosa ci ha ispirato la creatura della grotta, ma anche Goya, ovviamente, anche è stato un punto di riferimento importante”.
Un motivo secondo me di valore assoluto del film è quello di essere un unicum nella cinematografia italiana, almeno recente, per il genere che affronta. Un aspetto che appare evidente è come tu, considerato un esponente del realismo, abbia affrontato tematiche fantastiche comunque con un occhio realistico molto crudo. La scelta dell’opera, Lo Cunto de li Cunti, è estremamente interessante. Si tratta di un testo cruciale nella storia della letteratura fiabesca, eppure, nonostante perfino Benedetto Croce ne abbia realizzata una versione (edulcorata) in italiano moderno in Italia non è molto conosciuta e letta come dovrebbe. Come mai hai scelto proprio quest’opera?
“Ho scelto quest’opera perché… me ne sono innamorato subito! Ho sentito subito una forte fascinazione per i personaggi e le immagini. L’ho sentito familiare. Inoltre, pensavo che l’elemento fiabesco fosse presente anche in tutto il mio percorso precedente. È vero che io vengo considerato un realista, ma io non mi sono mai considerato tale. Sono un regista che in passato è partito dall’osservazione della realtà, ma ha sempre fatto di tutto per portare questa realtà in una dimensione più fantastica. In questo caso, ho fatto il percorso inverso. L’opera di Basile, che come dicevi giustamente tu è conosciuta da pochi, è una miniera di ricchezza e di bellezza”.
Anche a livello meramente linguistico…
“Sì, ma anche visivamente,  i personaggi sono sempre sorprendenti, Basile mescola continuamente comico e tragico, l’alto e il basso, il colto e il popolare…”.
Infatti, è un’opera in dialetto destinata ad un pubblico colto, un po’ l’operazione inversa di Dante, che inventò una lingua dai vari dialetti per rivolgersi al popolo. In particolare, mi pare che tu abbia enfatizzato l’aspetto grottesco, crudo dell’opera. È stato questo il criterio per selezionare solo quelle tre tra le cinquanta fiabe?
“Guarda, la scelta delle tre fiabe è stata molto dolorosa, perché ce n’erano talmente tante belle… Mi ricordo che anche con Gomorra avemmo lo stesso problema, avevamo tante possibilità e tanti personaggi affascinanti…Alla fine abbiamo scelto di fare un film al femminile: tre protagoniste femminili, in tre età diverse. La scelta nasce anche dalla tematiche che affrontano, tematiche diverse, e soprattutto dalla fascinazione dei personaggi: io ho bisogno di creare un legame profondo col personaggio, e di amarlo. Sentivo profondamente la fascinazione nel rapporto stretto con i personaggi che abbiamo raccontato, amandoli appunto, stando loro vicino, provando a raccontarli dall’interno. È un film che ha avuto un approccio semplice, non cerebrale, ma emotivo”.
Sbaglio se noto che in tutte le tre storie è filo comune il tema del desiderio, un desiderio ossessivo che poi si rovescia nel suo contrario?
“Sì, assolutamente: il tema del desiderio che diventa ossessione, è che poi diventa distruttivo, è tema centrale, anche nelle mie opere precedenti. Sono temi che ritornano nei miei film…”.
Basti pensare a L’Imbalsamatore…
Certo, ma anche a Primo Amore, nel quale diventa quasi una perversione. Anche Reality, anche Gomorra, in un certo senso. Tornano dei temi cari come anche il tema del corpo: io vengo dalla pittura, dunque il tema della metamorfosi continua, della trasformazione dei corpi mi è molto caro. È un film che io sento abbastanza vicino al mio percorso, non lo sento né distante, né di rottura, l’ho vissuto come un’evoluzione naturale”.
Infatti, la domanda conclusiva e riassuntiva è: perché hai scelto questo progetto così ambizioso e così apparentemente distante dal tuo stile (anche se appunto lo sguardo registico e l’ispirazione sono quelli di sempre)?
“Per come stanno andando le cose, ti dovrei rispondere…perché mi piace mettermi nei guai! Mi piacciono le sfide, mi piace attraversare generi diversi, in ogni film fare qualcosa che non ho fatto prima, ma che al contempo sia vicino alla mia sensibilità e al mio gusto. La mia domanda è perché non farlo? O meglio, perché non ci ha pensato nessun altro prima? Considerando, appunto, la bellezza straordinaria del libro, mi è parso naturale”.

Adriano Ercolani 
(“La Repubblica XL - 16 giugno 2015)












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