Cinecircolo Casalini
Stagione 2016

di Richard Linklater
con Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Tamara Jolaine

di Alejandro González Iñárritu
con Edward Norton, Emma Stone, Michael Keaton, Naomi Watts

OffiCinema
Racconti di Racconti
Il Cinema di Matteo Garrone

di Saul Dibb
con Michelle Williams, Matthias Schoenaerts, Kristin Scott-Thomas

Clint Eastwood
Storie di Uomini in Guerra

di Xavier Dolan
con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément, Alexandre Goyette

di Lee Toland Krieger
con Blake Lively, Harrison Ford, Amanda Crew, Michiel Huisman

di Luc e Jean-Pierre Dardenne
con Marion Cotillard, Catherine Salée, Fabrizio Rongione




di Jonathan Glazer
con Scarlett Johansson, Paul Brannigan, Scott Dymond

di Kenneth Branagh
con Lily James, Richard Madden, Cate Blanchett, Helena Bonham Carter



Proiezioni presso la Sala Chaplin, 
in Via Plateja 142, Taranto (trovaci qui)
Orario Spettacoli: 18.00 – 21.00
[* Unico spettacolo 18.30]

Quota sociale: Adulti € 25.00, Studenti € 22.00
La tessera sociale si può sottoscrivere presso la sede del Cinecircolo
nelle serate di programmazione delle attività.

Tutte le proiezioni avranno luogo di mercoledì
Il programma potrà subire delle variazioni per cause di forza maggiore


27 gennaio

Boyhood
di Richard Linklater 

con Ellar Coltrane, 
Ethan Hawke, Tamara Jolaine













La vita del giovane Mason, da quando frequenta la scuola elementare, fino al college, il rapporto con i genitori divorziati, i traslochi, le nuove scuole, i matrimoni falliti della madre, il legame conflittuale con la sorella Samantha, la nuova relazione del padre, l'evoluzione degli oggetti d’uso quotidiano, tecnologici e non, e i cambiamenti culturali, sociali e politici degli anni.

Boyhood è molto più di un period movie sugli ultimi 12 anni degli Stati Uniti ed è molto più di un romanzo di formazione. È addirittura molto più di un particolare esperimento cinematografico (realizzare un lungometraggio lungo più di una decade, riunendo ogni anno il cast per girare alcune scene e vederli così invecchiare realmente), è un grandissimo affresco sull'essere ragazzi americani oggi, partendo dalle radici, dalla formazione individuale, un racconto fondato quasi tutto sul concetto di famiglia, non tanto come nucleo ma come elemento centrale nella "boyhood", l'età tra gli 8 e i 20 anni. C'è un paese intero e il suo spirito per come è vivo oggi nella storia per nulla clamorosa di Mason.

Gabriele Niola, da MyMovies.it










3 febbraio

Birdman
di Alejandro González Iñárritu 

con Edward Norton, Emma Stone, Michael Keaton, Naomi Watts












Riggan Thomson è un attore decaduto, che disperatamente tenta di allontanarsi dal ruolo del supereroe Birdman che lo ha reso celebre, mettendo in scena a Broadway uno spettacolo teatrale tratto dall'opera What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver. E' l'occasione di rimettersi in gioco, ma le prove sono un disastro e la critica è già pronta al fallimento annunciato.


L'apparenza è quella della jam session, amplificata dal fatto che la linearità della performance teatrale è costantemente interrotta dagli imprevisti forniti dalla vita, dai nervosismi degli attori, dai drammi personali di chi lavora dietro le quinte e finisce, consapevolmente o meno, per sabotare la perfezione della fiction. Di improvvisato però non può esserci nulla, data la struttura tecnica a piano sequenza (quasi) unico che presuppone una grandissima opera di pianificazione delle riprese. Fra i due estremi favoriti dalla libertà e dalla programmazione che “congela” ogni atto, sta dunque la ragione d'essere di Birdman: creativamente e narrativamente, beninteso, poiché il gioco di alternanza fra le due sponde coinvolge il lavoro dietro e davanti la macchina da presa.


Davide Di Giorgio, da Orizzonti di gloria





17 febbraio

OffiCinema
Racconti di racconti:
il cinema di Matteo Garrone




















Matteo Garrone, 
il coraggio di una scelta impossibile

intervista di Adriano Ercolani

Dei tre film italiani presentati a Cannes (e tornati purtroppo a mani vuote), Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone è forse il meno riuscito, ma sicuramente il più coraggioso. Per questo abbiamo tifato per lui.  Nanni Moretti con Mia madre ha realizzato un film serio, solenne, rigoroso, a tratti commovente, ma perfettamente coerente (dallo stile al cast) con la precedente produzione dell’autore. Paolo Sorrentino con Youth da un lato ha confermato il suo grande talento visuale e aggiunto un altro tassello alla sua visione poetica, dall’altro però ha dato ragione ai suoi detrattori, indugiando in scelte di grande compiacimento manieristico. Garrone ha spiazzato tutti: ha affrontato tematiche apparentemente distanti anni luce dal suo percorso, mantenendo però in profondità la sua identità registica, semplicemente spostando su un altro piano immaginario la sua ricerca artistica ed esistenziale.
L’idea stessa merita un plauso incondizionato per almeno tre motivi distinti: in primo luogo il coraggio di affrontare un genere (il fantastico/fiabesco) talmente ignorato dalla nostra storia cinematografica da essere percepito come tecnicamente impossibile, dunque escluso a priori (se cerchiamo un precedente, a parte i pioneristici esperimenti di Margheriti negli anni ’60,  incontriamo solo Fantaghirò!);  l’intuizione di riscoprire un’opera come Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, oscuro capolavoro del primo Seicento, tra le più grande raccolte di racconti dopo il Decamerone, forse la più importante raccolta di fiabe italiana, a cui hanno attinto i più grandi autori di genere successivi (pensiamo a Cenerentola di Perrault o a Raperonzolo dei Fratelli Grimm); lo sguardo poetico coerente e originale che, invece di calare il fantastico nel quotidiano, racconta la dimensione fantastica con spietato realismo, quasi una versione allucinatoria e rovesciata dei racconti di Chesterton, un approccio che, almeno teoricamente, avrebbe affascinato Jorge Luis Borges.
Ma Garrone non solo ha avuto l’intuizione, soprattutto ha avuto l’ardimento di crederci e la costanza per realizzarla, rischiando moltissimo in prima persona.  Artisticamente e finanziariamente.
In un momento in cui nelle sale c’è un film come Mad Max: Fury Road (degno candidato al premio di miglior film d’azione di sempre), forte di un budget di 150 milioni di dollari, per un regista affermato in tutt’altro genere decidere di girare e co-produrre un film fantastico in Italia vuol dire essere visitati da due energie primordiali e potentissime: amore e follia. La sfida era impossibile: dunque, necessariamente persa in partenza. E come dichiariamo comunque di  ammirare il regista, dall’altro non possiamo mentire ai nostri lettori: l’opera, pur nel tentativo ammirevole, non è esente da difetti evidenti. Il film offre indubbiamente momenti di potente suggestione, a cui alluderemo senza rovinare la visione a coloro che ancora lo hanno visto. Ci riferiamo nel dettaglio ad alcune sontuose inquadrature di magnifici scorci naturali (il film è girato interamente in Italia), all’inseguimento dell’Orco e al finale a sorpresa,  alla visione preraffaellita della fanciulla nella foresta, più in generale all e variazioni sul tema della metamorfosi e del labirinto.
Ciò nonostante, francamente, al termine della visione ci ha assalito un profondo senso di disorientamento. Molti sono gli aspetti che non ci hanno convinto dell’opera: l’esasperazione  a tratti forzata dell’aspetto grottesco delle storie, la dilatazione ipnotica dei tempi narrativi, il contrasto tra la ricerca del realismo e l’artefazione della recitazione teatrale, le prestazioni sottotono dei grandi nomi, in particolare di un Vincent Cassel a tratti caricaturale (mentre Garrone si conferma erede di Pasolini nel trarre oro da attori  pressoché sconosciuti, la giovane Bebe Cave nel ruolo di Viola è nel finale impressionante), la carenza strutturale di un intreccio narrativo ben ordito, una diffusa sensazione di aridità, di empatia mancata, di eccessiva asciuttezza, un ritmo troppo poco serrato che acquista senso solo nel finale, con lo scioglimento naturale delle storie. Eppure…
Eppure, nonostante tutto questo,  ci sentiamo di ringraziare Garrone: ringraziarlo per il rarissimo coraggio, per l’ambizione sfrontata e lo slancio visionario. Al netto dei difetti, Il Racconto dei Racconti è un’opera da difendere, sostenere e supportare. È il tentativo titanico (e come tale destinato al fallimento) di uscire al di fuori delle convenzioni industriali, di evadere dalla prigione dei luoghi comuni e degli stereotipi imperanti nel cinema nostrano. Non possiamo più lamentarci delle solite commedie sdolcinate, delle serie tv con preti o carabinieri e dei cinepanettoni sguaiati, se per una volta che qualcuno prova a spezzare le sbarre della paralisi cinematografica italiana storciamo il naso. Per cui, vi invitiamo ad andarlo a vedere al cinema. Siete ancora in tempo.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Matteo Garrone durante la prima, trionfale edizione dell’ARF!, il festival di fumetto tenutosi a Roma dal 22 al 24 Maggio. L’occasione è stata la conferenza del venerdi con Davide De Cubellis e Leonardo Cruciano, rispettivamente l’uno storyboard artist e character design, l’altro visual designer e responsabile degli effetti speciali e digitali del film. Garrone ha confermato una nostra antica teoria, da noi denominata “Teorema Guccini”: posto che l’umiltà è il sigillo dei grandi, più un autore sarà importante, affermato, autenticamente grande, più sarà disponibile, gentile e affabile. Come lo è, proverbialmente, Guccini, così lo è stato con noi Garrone.
Visto il tema e i protagonisti dell’incontro, volevo chiederti in primo luogo: qual è stata l’importanza del loro apporto, sia quello di De Cubellis con lo storyboard che quello di Cruciano nel dare corpo alle creature fantastiche del film?
“Il lavoro di storyboard sicuramente serve ad immaginare un’ipotesi di come poi si potrà girare la scena nello spazio. Grazie ad esso si inizia a riflettere sui movimenti di macchina e su qual è la scelta giusta per raccontare quella scena. Il lavoro con Cruciano è, invece, di concept. Si inizia partendo da un lavoro di ricerca di immagini, sia pittoriche che legate ad animali particolari. Successivamente, c’è uno sviluppo artigianale grazie al quale  queste creature prendono forma, con delle correzioni in corso a seconda di ciò che noi riteniamo giusto. Sicuramente fondamentale è stato il lavoro artigianale. Con Cruciano c’era il desiderio di realizzare un lavoro sugli effetti che fosse molto materico, non digitale, molto artigianale. Il desiderio era che questi animali potessero essere “reali” sul set. Su questo ci siamo trovati subito in sintonia. Gli effetti dovevano esserci, ma al tempo stesso dovevano essere in qualche modo invisibili. Non bisognava percepire ostentazione o ridondanza del digitale. Avevamo alcuni riferimenti pittorici, ad esempio Salvator Rosa ci ha ispirato la creatura della grotta, ma anche Goya, ovviamente, anche è stato un punto di riferimento importante”.
Un motivo secondo me di valore assoluto del film è quello di essere un unicum nella cinematografia italiana, almeno recente, per il genere che affronta. Un aspetto che appare evidente è come tu, considerato un esponente del realismo, abbia affrontato tematiche fantastiche comunque con un occhio realistico molto crudo. La scelta dell’opera, Lo Cunto de li Cunti, è estremamente interessante. Si tratta di un testo cruciale nella storia della letteratura fiabesca, eppure, nonostante perfino Benedetto Croce ne abbia realizzata una versione (edulcorata) in italiano moderno in Italia non è molto conosciuta e letta come dovrebbe. Come mai hai scelto proprio quest’opera?
“Ho scelto quest’opera perché… me ne sono innamorato subito! Ho sentito subito una forte fascinazione per i personaggi e le immagini. L’ho sentito familiare. Inoltre, pensavo che l’elemento fiabesco fosse presente anche in tutto il mio percorso precedente. È vero che io vengo considerato un realista, ma io non mi sono mai considerato tale. Sono un regista che in passato è partito dall’osservazione della realtà, ma ha sempre fatto di tutto per portare questa realtà in una dimensione più fantastica. In questo caso, ho fatto il percorso inverso. L’opera di Basile, che come dicevi giustamente tu è conosciuta da pochi, è una miniera di ricchezza e di bellezza”.
Anche a livello meramente linguistico…
“Sì, ma anche visivamente,  i personaggi sono sempre sorprendenti, Basile mescola continuamente comico e tragico, l’alto e il basso, il colto e il popolare…”.
Infatti, è un’opera in dialetto destinata ad un pubblico colto, un po’ l’operazione inversa di Dante, che inventò una lingua dai vari dialetti per rivolgersi al popolo. In particolare, mi pare che tu abbia enfatizzato l’aspetto grottesco, crudo dell’opera. È stato questo il criterio per selezionare solo quelle tre tra le cinquanta fiabe?
“Guarda, la scelta delle tre fiabe è stata molto dolorosa, perché ce n’erano talmente tante belle… Mi ricordo che anche con Gomorra avemmo lo stesso problema, avevamo tante possibilità e tanti personaggi affascinanti…Alla fine abbiamo scelto di fare un film al femminile: tre protagoniste femminili, in tre età diverse. La scelta nasce anche dalla tematiche che affrontano, tematiche diverse, e soprattutto dalla fascinazione dei personaggi: io ho bisogno di creare un legame profondo col personaggio, e di amarlo. Sentivo profondamente la fascinazione nel rapporto stretto con i personaggi che abbiamo raccontato, amandoli appunto, stando loro vicino, provando a raccontarli dall’interno. È un film che ha avuto un approccio semplice, non cerebrale, ma emotivo”.
Sbaglio se noto che in tutte le tre storie è filo comune il tema del desiderio, un desiderio ossessivo che poi si rovescia nel suo contrario?
“Sì, assolutamente: il tema del desiderio che diventa ossessione, è che poi diventa distruttivo, è tema centrale, anche nelle mie opere precedenti. Sono temi che ritornano nei miei film…”.
Basti pensare a L’Imbalsamatore…
Certo, ma anche a Primo Amore, nel quale diventa quasi una perversione. Anche Reality, anche Gomorra, in un certo senso. Tornano dei temi cari come anche il tema del corpo: io vengo dalla pittura, dunque il tema della metamorfosi continua, della trasformazione dei corpi mi è molto caro. È un film che io sento abbastanza vicino al mio percorso, non lo sento né distante, né di rottura, l’ho vissuto come un’evoluzione naturale”.
Infatti, la domanda conclusiva e riassuntiva è: perché hai scelto questo progetto così ambizioso e così apparentemente distante dal tuo stile (anche se appunto lo sguardo registico e l’ispirazione sono quelli di sempre)?
“Per come stanno andando le cose, ti dovrei rispondere…perché mi piace mettermi nei guai! Mi piacciono le sfide, mi piace attraversare generi diversi, in ogni film fare qualcosa che non ho fatto prima, ma che al contempo sia vicino alla mia sensibilità e al mio gusto. La mia domanda è perché non farlo? O meglio, perché non ci ha pensato nessun altro prima? Considerando, appunto, la bellezza straordinaria del libro, mi è parso naturale”.

Adriano Ercolani 
(“La Repubblica XL - 16 giugno 2015)












24 febbraio

Suite francese
di Saul Dibb 

con Michelle Williams, 
Matthias Schoenaerts, 
Kristin Scott-Thomas













Durante la Seconda Guerra Mondiale Lucille Angellier vive assieme alla prepotente suocera e attende notizie del marito, che non ha mai veramente amato, partito per il fronte. La vita della tranquilla cittadina viene però sconvolta dall'occupazione dei nazisti e Lucille incontra l'affascinante comandante tedesco Bruno von Falk, con cui nasce un'appassionata storia d'amore.

Un romanzo come “Suite francese” è il capolavoro incompiuto di una grande scrittrice, scritto durante l'occupazione della Francia nei tristi giorni di Vichy e affidato dall'autrice alle figlie bambine prima di scomparire per sempre ad Auschwitz. Un'opera conservata per 60 anni e mai letta, scritta in una calligrafia minuta, ritenuta a torto un diario e poi scoperta come romanzo, pubblicata nel 2004 e diventata caso letterario e libro amatissimo in tutto il mondo. Concepito dall'autrice Irène Némirovsky come un grande affresco in cinque parti sulla tragedia della guerra e i suoi effetti sulla popolazione civile, sul modello di “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj, “Suite francese” resta l'unico romanzo contemporaneo al conflitto, visto attraverso uno sguardo femminile.

Daniela Catelli, da Comingsoon.it






















2 marzo

OffiCinema: 
Clint Eastwood
Storie di uomini in guerra
















Clint Eastwood, l’inutile lezione della guerra

di Luca Celada

LOS ANGELES - Clint entra nella stanza con l’andatura inconfondibile da Uomo Senza Nome, appena irrigidita dagli anni, gli occhi blu ghiaccio addolciti da un sorriso all’angolo della bocca (più tardi l’occhiolino, impagabile, mentre prende in mano una copia de il manifesto per farsi fotografare).
Sono passati sessant’anni da quando, attore di tv pomeridiana, fu capace di reinventarsi come personaggio iconico grazie all’incontro con Sergio Leone che ricorda tuttora calorosamente. Rinomato bastian contrario con una spiccata allergia alle mode e i focus group usati dagli studios per sondare il gradimento del pubblico, Eastwood è uno che la sua strada se l’è sempre fatta da sé. Nel cinema e nella politica. L’uomo che è stato Callaghan e sindaco di Carmel è stato spesso accusato di essere «di destra», semmai però ha espresso un populismo sincero che tuttavia non è quello becero e oscurantista del Tea Party, piuttosto quello «radicale» dei seguaci ultraliberisti di Ron Paul, e più di tutto affine a quello atavicamente americano dei film dell’amico e mentore Frank Capra.
Clint è un «conservatore» capace di fare film contro la pena di morte (Fino a prova contraria) contro il razzismo (Gran Torino) e contro la guerra (Lettere da Iwo Jima).
Nell’ultimo American Sniper torna alla guerra e ai grandi racconti americani con un film feroce e complicato che farà discutere e, ancora di più, farà sicuramente anche incazzare parecchia gente.
La storia è quella di Chris Kyle, cecchino dei Navy Seals, campione di kills, a cui in quattro turni di servizio in Iraq vengono attribuiti 160 nemici uccisi accertati (255 «probabili») che, data la definizione assai elastica di «enemy combatants» nella guerra «asimmetrica», comprendono civili, donne e bambini. Texano tutto d’un pezzo, redneck e cowboy da rodeo, dopo gli attentati all’ambasciata Usa in Kenya e Tanzania, Kyle parcheggia il pick-up d’ordinanza davanti all’ufficio di reclutamento e si arruola nei Navy Seals.
Ma American Sniper è soprattuttto un film sull’ossessione e i suoi costi morali. Incomparabile per la rappresentazione della surreale normalità di una guerra «pendolare» che alterna gli orrori dell’occupazione alla monotona banalità dei turni a casa; una paradossale dissociazione per i soldati e una comoda rimozione per un Paese che ne «scopre» il costo reale attraverso i rapporti parlamentari sulla tortura.
In questo mondo il Callaghan/Achille di Clint torna dal fronte traumatizzato nel profondo — non conoscerà la catarsi del pentimento ma la patologica frattura interiore dei reduci.
Grazie anche alla splendida interpretazione di Bradley Cooper, il film fotografa la sindrome traumatica che devasta decine di migliaia di reduci e a cui, nelle guerra perpetua, sono destinate generazioni di veterans. Siamo nel mondo manicheo dell’idolatria della bandiera e della fatale attrazione per le armi da fuoco che, dal Medio Oriente al commissariato di Ferguson, è così inestricabile dalla mitologia nazionale.
Perchè l’attrae la guerra come soggetto?
Le storie di guerra erano molto popolari quando ero ragazzo, sono cresciuto con l’immagine di Robert Taylor in Bataan (di Tay Garnett, ndr), e tutti gli altri film dell’epoca. Erano storie memorabili. Il conflitto è la base del dramma e la guerra è il conflitto per antonomasia.
E il suo rapporto col patriottismo?
Quando è scoppiata la seconda Guerra mondiale avevo undici anni. Nella mia vita ho assistito a molti cambiamenti di opinione riguardo al patriottismo. Durante la seconda Guerra non si discuteva nemmeno: tutti erano patriottici, a favore della guerra «giusta» combattuta per assistere le nazioni europee. Si andava al cinema a vedere i cinegiornali sul Pacifico e l’invasione di Iwo Jima — tutte cose che mi sono ricordato quando ho fatto i film. Quindi provengo da una generazione in cui il patriottismo era un articolo di fede. Solo quattro anni dopo eravamo di nuovo in azione in Corea. Ricordo di aver pensato che la situazione presentava una strana ironia: ci avevano appena finito di dire che non ci sarebbero state più guerre, e di colpo eccomi reclutato. Era il 1951 e ci chiedevamo cosa diavolo ci stessimo a fare laggiù. Col Vietnam poi se lo chiese anche un mucchio di altra gente: perché continuavamo a combattere? E quando sarebbe finita una volta per tutte?
Invece non è ancora finita.
Già. Non sono mai stato d’accordo con la guerra in Iraq, e le ragioni erano sempre le stesse, che mi hanno spinto in passato a essere contrario all’intervento in Corea e agli altri che sono seguiti. Noi che siamo cresciuti con la seconda Guerra abbiamo conosciuto la sofferenza, e a un certo punto diventa inevitabile chiedersi quale sia il fine di tutto questo.
E quindi l’Iraq?
Ricordo che eravamo sul set di Mystic River quando hanno deciso di rimandare le truppe in Iraq per la seconda volta. All’epoca di Bush padre molti americani si erano schierati a favore dell’intervento militare nel Golfo, ma in quel momento tanta gente era contraria. Saddam non era certo popolare qui in America, ma se si devono prendere decisioni simili in base all’antipatia il rischio è di non fermarsi più. Il mondo è pieno di antipatici.
Oggi cosa pensa?
La prima Guerra mondiale doveva mettere fine a tutti i conflitti, invece sappiamo come è andata. A un certo punto ti viene da chiederti se l’umanità sia davvero capace di vivere in pace, una cosa che non sembra essere nel nostro Dna. Non sembra che la Storia stia dalla parte della pace, non certo almeno a giudicare dalla propensione che abbiamo ultimamente di andare a esportare la democrazia in paesi che non ne vogliono sapere. È tragico che sia così, ma credo anche che quando fai un film sulla guerra impari qualcosa su te stesso, cominci davvero a riflettere sulla guerra e in definitiva sul ruolo che il tuo Paese ha nelle guerre.
Kyle, il cecchino del suo film, impara?
Perlopiù sono altri personaggi quelli che pongono interrogativi sulla moralità della guerra, lui è costantemente nella posizione di giustificare il proprio operato, e a furia di difenderlo arriva al punto in cui non ne è più così certo. La scena in cui alla fine dice allo psichiatra che è pronto ad affrontare il Creatore senza rimpianti mostra in realtà l’esatto contrario.
E lei cosa ha imparato dalle sue esplorazioni della guerra?
Fare un film sulla battaglia di Iwo Jima e poi rivisitarla dal punto di vista giapponese per me è stato molto interessante. All’epoca anche le truppe americane, e perfino i generali dei marines, elogiarono la difesa dei giapponesi. Approfondire la loro realtà è stato molto stimolante. Penso che sia uno dei miei film più riusciti.
Potrebbe immaginare un’operazione analoga sulla guerra in Iraq, raccontarla dal punto di vista del nemico?
Non credo. Forse qualche altro regista in futuro. Intanto però dovrebbe finire. E poi tutto dipende dalla storia, se c’è qualcosa degli avversari che vale la pena esplorare, che è interessante, allora è una storia che è bene raccontare.
Ama le armi da fuoco?
Io? Credo che l’ultima volta che ho imbracciato un fucile sia stato in quella scena di Gran Torino quando dico: «Get off my lawn!». Per fortuna era caricato a salve, altrimenti c’era il rischio che accecassi qualcuno.
Se incontrasse sé stesso da giovane cosa si direbbe?
Non so. Quel ragazzo non era particolarmente sveglio. Forse gli direi di non perdere tanto tempo e di darsi da fare.

Luca Celada 
(“il Manifesto” del 18.12.2014)










9 marzo

Mommy 
di Xavier Dolan 

con Anne Dorval, 
Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément, 
Alexandre Goyette












Diane, 46 anni e madre vedova, vuole godersi la vita. Steve, suo figlio, è però preda di attacchi di violenza improvvisa, e vive in un istituto. Dopo l'ennesimo incidente, Steve deve andare a vivere con la madre. Appena insieme i due iniziano subito a fare scintille. Tra loro, si inserisce la nuova vicina di casa, Kyla, ex insegnante. I tre cercano insieme di recuperare un nuovo equilibrio...

Xavier Dolan o del piacere. Lo senti che a stare sul set lui gode. Un piacere così radicale non si trova facilmente. Dolan adora intossicarsi nelle materie vive del suo cinema. Lui, davvero, crea un altro mondo. Il cinema vissuto come lo vive Dolan, come messa in scena del cuore e dei sentimenti, come un orgasmo che si moltiplica instancabilmente con ogni stacco di montaggio, che irrompe sulla superficie dell’immagine con ogni canzone scelta per il suo valore filmico, non è più cinema, assomiglia paurosamente alla vita.

Giona Nazzaro, da Uzak  



16 marzo

Adaline 
L'eterna giovinezza
di  Lee Toland Krieger 

con Blake Lively, 
Harrison Ford, Amanda Crew, Michiel Huisman










Adaline Bowman, nata nel 1908, all'età di 29 anni è vittima di un incidente d'auto che, paradossalmente, la rende immortale. Da quel momento smette di invecchiare e vede passarle la vita accanto: impara così a non innamorarsi per non vedere i cari morire, Ma quando incontra Ellis, un trentenne con cui è amore a prima vista, la sua determinazione comincia a vacillare.


Quello che può sembrare un look patinato è in realtà funzionale al tono, all’atmosfera, allo scorrere di questa storia che in chiave genuinamente romantica ribalta il senso dei modelli e dei miti cui fa ineluttabilmente riferimento: da Faust a Dorian Gray. L’arcano fermo-età che capita alla non ancora trentenne Adaline Bowman sul finire degli anni Trenta è subito come un fardello, non è l’effetto voluto di un patto diabolico in nome dell’eterna giovinezza.  

Paolo D'Agostini, da La Repubblica


30 marzo

Due giorni, una notte
di Luc e Jean-Pierre Dardenne 

con Marion Cotillard, 
Catherine Salée, 
Fabrizio Rongione










Sandra è l'anello debole della sua azienda perché ha sofferto di depressione anche se ora la situazione è migliorata. I suoi colleghi sono stati messi di fronte a una scelta: se votano per il suo licenziamento riceveranno un bonus di 1000 euro. Ma Sandra chiede una ripetizione della votazione e ha poco tempo per convincere chi le ha votato contro a cambiare parere.


I Dardenne non sono interessati a indicare, per l’ennesima volta, l’oppressione del capitale, al punto che la voce e le ragioni dei datori di lavoro ci giungono quasi sempre di riflesso, come un riferimento, un sentito dire. Vengono meno, perciò, le stesse motivazioni e possibilità di un’opposizione frontale. La mediazione, fondata sul ricatto della crisi, è già data per scontata. Ed è, ovviamente, a perdere. A partire da queste basi, visto e considerato il mutismo operaio (Comolli a proposito di Risorse umane), cosa resta della lotta? Il punto, allora, è registrare lo sfaldamento definitivo della classe lavoratrice, scomposta nella particolarità degli interessi individuali.

Aldo Spiniello, da Sentieri Selvaggi





6 aprile














OffiCinema: 
Omaggio a Ken Loach


Ken Loach, “Sfidare il racconto dei potenti”: 
il cinema può ancora stravolgere lo status quo?

di Davide Turrini


Il cinema può ancora inceppare il congegno, stravolgere lo status quo, “sfidare il racconto dei potenti”. Lo spiega il 78enne regista inglese Ken Loach in un appassionante ed intenso libricino edito da Lindau, scritto in collaborazione con il giornalista Frank Barat: Sfidare il racconto dei potenti. “Facciamo film per cercare di sovvertire, creare disordine e sollevare dubbi”, spiega il pluripremiato regista di capolavori come Ladybird, Ladybird e Piovono Pietre, nel primo capitolo di un istantaneo e ficcante pamphlet dove si fondono arte e vita, cinema e politica, senso di collettività nel lavoro e oppressione del capitale in ogni sua attuale forma neoliberista. “I tentativi artistici nascono inevitabilmente dalle nostre esperienze e dalle nostre percezioni, le quali costituiscono l’unico materiale di lavoro. E’ tutto ciò di cui disponiamo per creare. I problemi cominciano quando ci si mettono di mezzo gli affari, quando l’unico obiettivo diventa la produzione di merce per arrivare a un guadagno. A partire da quel momento la ricerca del profitto impone il contenuto e di conseguenza viene realizzato soltanto ciò che può essere sfruttato commercialmente”.
L’analisi di Loach sul sistema di creazione delle immagini al cinema, come in televisione, è lucido e spietato, un j’accuse che ricorda Indignatevi! di Stephan Hessel, con un unico obiettivo: rigore morale e chiarezza espositiva per ribaltare gli equilibri esistenti in cui ci sono e ci saranno sempre conflitti di classe tra sfruttatori e sfruttati. La storia che raccontiamo e filmiamo, spiega Loach, deve essere “un sassolino che produce tante onde (…) un microcosmo che illustra lo stato generale del mondo, mette in luce il funzionamento della società mostrandone derive e disuguaglianze”. E ancora: “Col tempo le cose non sono cambiate (…). La società è sempre stata basata sul conflitto, una classe contro l’altra. Chi sta al potere non vuole che il popolo combatta contro il suo vero nemico, la classe capitalista, quelli che hanno il controllo della grandi imprese, che dominano finanza e politica”.
Ecco allora arrivare il cinema, il cinema di Ken Loach – quasi una quarantina di film, tra fiction, documentari e corti in quarant’anni di lavoro – quell’utopica forma artistica che mira a cambiare “l’ordine delle cose”: “Affinchè un film sia realmente politico, nel senso di strumento, di mezzo politico, deve esserci coerenza tra la sua sensibilità e il suo contenuto (…) Il punto di vista e le opinioni non dettano i nostri film in modo diretto: li colorano, li guidano nella scelta dei soggetti e delle storie da raccontare”. Ne deriva così un vero e proprio vademecum comunitario e antitradizionale su come si prepara, produce e si gira un film alla Loach: intanto il “produttore deve capire il film, come sarà realizzato e crederci. Intellettualmente ma anche visceralmente”; poi bisogna costruire una “squadra”, “è fondamentale costruirne una compatta non circondarsi dei tecnici più talentuosi” dietro ai quali si sentirebbe molto l’aspetto di corporativismo, di lavoro perfetto ma fatto ognuno separato dall’altro, “meglio trovare persone che riescono a lavorare all’unisono, che sono capaci di condurre il film con un’unica voce”. Poi tocca alla macchina da presa che “non deve muoversi per anticipare ciò che sta per accadere, dato che non lo sa” e agli attori: “La credibilità è la nostra sola esigenza, cerco persone alle quali gli spettatori sono disposti a credere (…) cerchiamo attori con qualche fragilità, aperti, disponibili, generosi, non attori famosi perché in loro gli spettatori vedranno “prima la celebrità e solo dopo il personaggio”.
Un assunto così categorico e naturalistico che anche solo prendendo l’ultimo Jimmy’s hall sembra essere stato ottenuto con millimetrica precisione. Sfidare il racconto dei potenti è infine un libro in forma di autobiografia professionale che tocca fasi della carriera di Loach meno conosciute ma altrettanto cruciali per la forza politica della settima arte dal dopoguerra a oggi: la critica contro l’uso che si fa oggi della televisione per un artista che in tv iniziò con il lungo Cathy came home (1966) (“oggi i manager si intromettono in ogni ambito dal copione al casting e annullano ogni originalità del regista”); gli anni ottanta dell’era Thatcher in cui Loach venne ostracizzato, mal tollerato, costretto a girare documentari e infine censurato perfino dai distributori quando con il ritorno alla fiction de L’agenda nascosta (1990) – premio della giuria al Festival di Cannes – venne boicottato dalle singole sale del Regno Unito per aver raccontare la verità sugli omicidi di repubblicani irlandesi coperti dai servizi segreti inglesi. Infine trovano spazio nitide stoccate alle derive del laburismo e dalle socialdemocrazie odierne che non sono altro che destre moderate; prese di posizione ideologiche anticonsumistiche come l’uso della pellicola, soprattutto nel montaggio (“quando un montatore lavora in digitale per il regista che gli sta seduto accanto è difficile capire cosa stia facendo (…) montare in pellicola è un procedimento più lento che dà tempo di riflettere, è un ritmo più umano e agendo materialmente si agisce con più cautela”); e l’impostura ideologica della mecca del cinema, le produzioni hollywoodiane con star hollywoodiane con soggetti “buoni” ovvero un chiaro messaggio di rivendicazione: “Spesso si sente dire che per raggiungere il maggior numero possibile di persone ci vuole una star. Ma in tal caso non si tratta più dello stesso film. Nei discorsi sottesi a questo tipo di film esiste l’accettazione della gerarchia, della ricchezza estrema, del potere delle grandi imprese e di tutto quello che ne è connesso”.

Davide Turrini
(“Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2015)













Ken Loach, lo Spirito del '45. 
Quello che Blair ha cancellato

di Roberto Silvestri


Democrazia e socialismo. Si possono, si devono coniugare? E come? Il capitalismo, corretto e controllato,  è possibile? O stiamo maneggiando concetti obsoleti, idee-forza depotenziatesi con il tempo, nell'era della globalizzazione come religione verticista e fondamentalista? Questo è il punctum del film The Spirit of '45, Lo spirito del '45, uscito il 15 marzo scorso in Gran Bretagna e il Italia il 10 settembre scorso.

Stiamo parlando di cose ammuffite, vecchie, che risalgono a quasi 70 anni fa? Bé. Sono i vecchi le super-star di oggi. Non solo Clint, ma anche Up!, il gerontofilo di Bruce La Bruce, il matusa Lincoln, il cartoon per solo anziani Rughe... Oggi - nonostante il balbettio urlato dei rottamatori, vecchio è (paradossalmente) bello. E questo film sarà anche una bella sfilata di meravigliosi e meravigliose ottuagenarie. Ma il concetto di bene comune è addirittura più che millenario, come ricorda il filosofo americano Michael Sandel in Reith Lectures 2009... 
L'esperimento nordamericano di F.D. Roosevelt finì con la morte prematura del quattro volte presidente, nel 1945 (da allora rimosso dall'immaginario Usa con la scusa della caccia ai rossi: ma era lui il più odiato dalla destra). 
Le sue grandi campagne di spesa pubblica 'strutturale' e le nazionalizzazioni erano dirette al bene comune, pensate come controllo e fiancheggiamento, ma anche scavalcamento di mercato delle stessa mega corporation, i supereroi della grande crisi. 
Nella concorrenza (vi sfido e vi batto sul vostro stesso terreno, i conti, i profitti...) si sarebbe evidenziata la superiorità, pratica e etica, dell'azienda pubblica di mercato. Più profitto, più spesa socialmente utile. 
In Europa, le politiche socialdemocratiche, soprattutto scandinave, ma anche più a sud nel continente, hanno evidenziato però notevoli problemi di burocraticità, spreco, zavorra clientelare e inefficienza... Questo non significa che dagli errori non si debbano ipotizzare come realizzabili profonde 'riforme di struttura' (usando una terminologia Pci anni 60 e 70) e migliorare il welfare, lo stato sociale in senso né statalista né 'mafioso'.
Un film importante e controverso, un'opera non fiction diretta da un cineasta progressista come il britannico Kenneth Loach, si è occupato proprio di questo problema, cruciale e nodale (e la Bim ha fatto strabene a distribuirlo in Italia, in piena crisi anche dell'ideologia liberista, in una coraggiosa edizione originale con i sottotitoli).  Diffonderlo nelle scuole sarebbe pratico e doveroso.
E, a proposito del modello socialista del laburismo britannico postbellico (la sinistra guidò il paese dal 1945 al 1951) che il film racconta - e che fu modificato comunque esizialmente, perché la politica obbliga al 'compromesso storico' con la borghesia - già si rintracciano errori e timori paralizzanti della sinistra. Il non coinvolgimento dei sindacati nella gestione aziendale. La mancanza cronica di investimenti. L'assenza di una pianificazione di lungo periodo provocarono il fallimento delle nazionalizzazioni.
Ma soprattutto la mancata epurazione dei manager pre-nazionalizzazione. Il caso delle miniere, nazionalizzate e rese operative 24 ore su 24 per tutto l'anno, è emblematico: perché poi furono affidate - come ci racconta un'avanguardia di lotta - in amministrazione e coordinate proprio dagli stessi vecchi sgherri dei padroni privati, sia a livello locale che nazionale.   
Il principio guida delle nazionalizzazioni british style era che le società sarebbero state gestite come un business commerciale, non direttamente dal governo, ma da una 'corporation pubblica'. I vecchi manager rimanevano al loro posto e i proprietari venivano intermaente risarciti in buoni del tesoro. Contratti di lavoro e diritto di sciopero rimanevano inalterati (e inalteratamente repressi dai manganelli dei poliziotti).
Ma per un momento fu grande festa. Siamo a Londra, nel 1945. Nelle piazze e nelle strade si balla, a ritmo di swing e anglo boogie-woogie (grandiosa la colonna sonora, quasi tutte jazz band dell'epoca), per festeggiare la fine della guerra dei sei anni.
Uno spettro si aggira però nel paese e incupisce i volti raggianti delle ragazze che baciano, quasi discinte, i marinai di Piccadilly Circus. L'incubo di tutto il popolo britannico è di ripiombare nel 1919 postbellico, con tanto di stenti, devastazione sociale, miseria, slums, fame, disoccupazione, infezioni, sfruttamento, infortuni assurdi sul lavoro e malattie, incurabili solo perché mancano ai lavoratori i soldi per curarsi...
Per illustrare quel frangente delicato Ken Loach torna dopo anni al documentario, quasi parallelamente all'uscita del libro Austerity Britain, scritto dallo storico David Kynaston su quel periodo chiave della storia britannica. E si chiede: basta nazionalizzare il 40% delle capacità industriali di un paese per attraversare una 'fase socialista' di crescita economica, o senza un controllo 'dal basso' sprechi e inefficienza faranno crollare l'intero progetto? 
Loach ritrova così nel passato antiche cose dimenticate, ma molto attuali, e in qualche modo riassume in questo film l'intero atlante del suo cinema (lotte operaie e nei servizi, privatizzazione delle ferrovie, sconfitta dei minatori, guerra di Spagna, radiografia di un interno proletario...). 
E ci scodella le parti migliori del materiale d'archivio statale e regionale che ha rintracciato con i suoi implacabili collaboratori, per lo più in squillante bianco e nero, intervistando per commentarle (sempre in un bianco e nero suggestivo) trentatre tra testimoni militanti d'epoca, minatori, operai, infermiere, ex combattenti in Spagna dalla parte giusta, madri di famiglia, ma anche storici radicali, sindacalisti, militanti e leader della sinistra laburista come Tony Benn. 
Una casalinga, nel footage d'archivio, davanti al palazzo dove viveva, completamente distrutto da un bombardamento tedesco, commentava in uno stile più british che neorealista di fronte alle macerie: "e pensare che avevo lavato tutti i vetri dell'appartamento proprio ieri".
"Abbiamo vinto la guerra insieme, insieme potremmo vincere la pace. Lo spirito di collaborazione e solidarietà che ci ha accompagnato durante le campagne militari antifasciste, ci potrebbe aiutare a ricostruire il paese e a farlo funzionare meglio,  creando, dal basso, una nuova fabbrica sociale. Lo dobbiamo ai nostri fratelli e sorelle morti sul fronte o sotto i bombardamenti". Eccolo lo spirito del 45. Autogestione e qualche miliardo di sterline del piano Marshall per far ripartire e modernizzare le industrie...
E' quel che voleva il 70% del paese, i lavoratori e le lavoratrici scozzesi, gallesi, inglesi e nord irlandesi. Si chiama controllo operaio. 
Però, ci si chiede, perché mancano un po' dal documentario, sono proprio sempre fuori quadro, i lavoratori e gli intellettuali di origine asiatica, antillana e africana, la working class del Commonwealth? Una stranissima assenza, notata da qualche collega inglese, perché gli aliens avranno una parte non insignificante nella prosieguo della vicenda. Il fatto è che il film è non affatto di parte, ma ha certamente un tono nazionalitario, sanamente patriottico. E nel 1945 lo 'spirito' è tutto wasp, white anglo-saxon protestant. 
Fino al 1948 infatti sono solo 30 mila i 'non bianchi' che abitano nel Regno Unito, anche se si fanno sentire. Una legge laburista di quell'anno estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero (compresa l'India che sta lottando per l'indipendenza) soprattutto per ringraziare le migliaia di soldati canadesi, neozelandesi, sudafricani, australiani, e anche africani e neri caraibici, morti sui campi di battaglia... Si tratta di circa 450 milioni di cittadini britannici, tutti con gli stessi diritti, che abitino a Nairobi o a Liverpool.
Se si rievoca, nel film, lo 'spirito del '45', quello che spinse un intero popolo attivato a cambiare il proprio futuro, è proprio per spronare la gioventù europea di oggi . E mettere in altra luce la signora di ferro, che si sarebbe incaricata di cancellare dalla storia e dalla memoria, a partire dal 1979 e con particolare violenza a Brixton, dove i bobbies scatenarono tutto il loro razzismo... 

Nel frattempo erano cambiate molte cose. Tra il 1948 e il 1962 per rimordernare le industrie, bisognose di lavoratori non specializzati, erano stati risucchiati in Gran Bretagna cinquecentomila proletari, per lo più provenienti dalle West Indies, dall'India e dal neonato Pakistan. L'ondata di razzismo scuote la perfida Albione.  E' l'epoca dei cartelli sui negozi: "no irlandesi, no neri, no cani".  Sarà presto quella di Enoch Powell e delle sue gang neonazi del Fronte Nazionale. 

Ma contemporaneamente, si afferma la strategia (ambigua) del multiculturalismo che si vuole contrapporre al melting pot e alla transculturalità: "l'integrazione non è un processo di assimilazione del diverso ai nostri valori, ma significa permettere una eguaglianza di possibilità per tutti, accompagnata dal rispetto della diversità culturale e dalla tolleranza reciproca" (Roy Jenkins, ministro laburista del 1968). Poco dopo i governi conservatori smantelleranno anche il diritto di cittadinanza per i lavoratori del Commonwealth. E i disordini razziali si moltiplicheranno.
Ma torniamo indietro, a quelle sorprendenti elezione del luglio 1945.   
Miracolo, il grande vincitore del conflitto antinazista, il liberale Winston Churchill, viene sconfitto nel 1945 e addirittura violentemente fischiato quando, durante la campagna elettorale, ha usato gli abituali e 'sempre verdi' slogan della destra ("noi siamo per una diseguale ricchezza, loro per una uguale povertà") e si è permesso di accusare violentemente gli ex preziosi alleati sovietici paragonandoli alla Gestapo (un cavallo di battaglia del pensiero reazionario, ma in quel momento doveva suonar ancor più infame).
Vince la sinistra. Si potrà costruire la "Nuova Gerusalemme". Il manifesto elettorale laburista, al paragrafo IV, quello che poi Tony Blair cancellerà (per fare un favore a Renzi?), promette di "assicurare ai lavoratori materiali e immateriali il pieno frutto del proprio lavoro, sulla base della comune proprietà dei mezzi di produzione, della distribuzione e dello scambio". Lo stesso manifesto garantisce un decente standard di vita per ogni famiglia. Quel manifesto seduce la maggioranza degli elettori.  
Il paese così volta pagine. E manda al governo il laburista Clement Attlee che, con il suo coriaceo ministro dei lavori pubblici e della sanità, Aneurin Bevan, detto Nye, scandalizzarà per una decina di anni tutti i profeti del libero mercato (che lo chiameranno il 'fuhrer della medicina', anche se ci sarà chi, come il professor Harry Keen, 87, fonda e guida una associazione di medici pro Nhs e spiega a Loach il perché). 
Si attua a poco a poco, e non senza contrasti di classe anche aspri, e perfino con la classe operaia (quando, nel 1948, la guerra fredda costringerà Attlee a scegliere con chi stare, starà con Truman e non con Stalin), la politica economica di Keynes, basata sulle nazionalizzazioni strategiche (acciaierie, porti, strade, ferrovie, energia...), sul controllo pubblico delle banche e sul welfare, su una forte spesa edilizia, scolastica e sanitaria statale e sulla fine delle spese coloniali (è Attlee che firma l'indipendenza dell'India e gestisce il ritiro dalla Palestina). E' la rivoluzione nella democrazia. Durerà poco. 
Ed è ancora spirito del '45: lo stato si impadronisce delle industrie chiave che i capitalisti privati hanno piegato alla sola logica del profitto, con conseguenze irrazionali e paradossali (trasporti pubblici intasati, acqua, energia e telefonia a tariffe alte, edilizia e miniere funzionanti a singhiozzo...) e impone per la prima volta nella storia l'assistenza sanitaria pubblica e gratuita per tutti, terrorizzando, ma poi cooptando, una parte della corporazione medica (gli specialisti).  
L'utopia plausibile di F.D. Roosevelt, il capitalismo embedded, sottoposto a regole ferree, e particolarmente frenato nei suoi bassi istinti rapaci soprattutto durante le crisi economiche che le mega-corporation provocano ciclicamente per ingrandirsi (è la loro malattia incurabile) e mangiare i pesci piccoli, si realizza invece in Europa. 
Per la classe operaia è la rivoluzione western style, quella che 'non russa'. Un minatore vedrà spendere soldi pubblici per rendere sicure le gallerie sotterranee, prima di essere spedito a riempire più carrelli di carbone possibili senza pù rischiare la pelle all'80%. Affitterà a prezzo contenuto una casetta a due piani (con il giardino, la cucina e il bagno!) nei suburbi, costruita in soli 12 mesi proprio per lui, invece di ammalarsi di tubercolosi nelle solita spelonca ammorbante, permettendosi cure per tutta la famiglia, invece di vederne morire una parte per mancanza di scellini e pence. Dovrebbe, certo, avere molti più soldi per la sua fatica bruta, rispetto a chi ha lavori 'creativi e piacevoli'. Ma questo sarebbe comunismo....    
La sera stessa della vittoria elettorale di luglio, Atlee presenta al popolo il suo governo in un teatro londinese, al Limehouse, e annuncia: "il mio programma sarà socialista". Sembra Allende. Non finirà come lui. Ma il labour mollerà a poco a poco la presa... 
Quando i minatori e gli operai bianchi inglesi, ricordando le privazioni, gli stenti, la repressione degli anni venti e trenta, si chiederanno come mai il più grande impero del mondo avesse potuto trattare per secoli i suoi concittadini come schiavi, da una parte si ricorderanno di Karl Marx che, analizzando la sconfitta del 1848 tedesco, scriveva: "in un punto i borghesi prussiani si avvicinano all'ideale inglese: nel maltrattare sfrontatamente gli operai". 
E poi si chiederanno se quella magnificenza urbanistica e sontuosità da capitale del mondo di Londra non sia stato il frutto della rapina coloniale, piuttosto avida e continuata, all'opera da almeno 4 secoli. Ecco perché ci sono voluti gli israeliani per costruire il mega centro commerciale di Nairobi, ora in briciole, e non è successo invece il contrario, che fosse keniana la proprietà e l'edificazione del palazzo dei Lloyds di Londra...   
Tra gli intervistati da Loach nel documentario (più appassionante di un 'romance', più thrilling di un horror,
più informativo di un tg3) c'è l'ex Ray Davies, 83 anni, veterano gallese della guerra di Spagna (e il berretto rosso che ha in testa non smentisce) ed è lui che ci ricorda i morti nelle viscere della terra, assassinati senza scrupoli (e senza galera) dai padroni. Li ha visti con i suoi occhi i suoi colleghi morti schiacciati dalle pietre perché mancavano le impalcature di sostegno corrette, quando scendeva nelle gallerie a 15 anni.  
Un minatore, allora, anche senza incidenti, aveva una vita media di 42 anni. E una novantanovenne di Liverpool, Eileen Thomson, cresciuta negli slums degli anni 30: "Volevamo lavoro e tranquillità, non eravamo particolarmente ambiziosi né avidi, ma non volevamo più vedere sfilare nelle strade orde di disoccupati affamati e questuanti come durante la grande crisi. Uno per tutti e tutti per uno, le case per molti e niente stralusso per pochi. Queste erano le nostre parole d'ordine".    
Chissà perché oggi tutti mitizzano la Thatcher e investono miliardi per glorificarne la figura, anche se fu oltre che una teppista sociale anche una supporter strenua dell'apartheid di Pretoria e dunque un essere moralmente ributtante a livello basic (gli occhi di Meryll Streep non sono riusciti a incorporarne quello sguardo da squalo). 
E invece nessuno ha mai fatto un film sulla rivoluzione del National Health Service, il servizio sanitario nazionale, che, nato nel 1948, la Thatcher non riuscì proprio a distruggere, nonostante i suoi tentativi, se non in un pezzetto, societarizzando le compagnie che si occupano del vitto e delle pulizie negli ospedali (con risultati orrendi, ci spiega l'infermiera Karen Reissmann dal punto di vista dei costi pubblici, perché pulizie mal fatte, un solo turno invece dei due pubblici precedenti, significano più infezioni e infezioni significano più spesa medica). Credo che sia per questo motivo che Loach ha considerato necessario, indispensabile, soprattutto per le nuove generazioni ignare, preparare questa lezione di storia, in puro spirito 'rosselliniano'. Il fatto è, commenta Ray Davies, che 'solo il popolo aiuta il popolo'. Lo abbiamo imparato allora, ma oggi molti lo hanno dimenticato. 
June Hautot, 76 anni, che vive nella zona sud di Londra, ricorda nel film che suo padre, operaio delle ferrovie, ferito in guerra e sua madre, malata di cancro, furono più truffati che curati dalle compagnie d'assicurazione private. Solo quando nacque l'Nhs le cose cambiarono e l'assistenza divenne 'meravigliosa'. La signora Hautot, una celebrità dei media britannici per aver affrontato pubblicamente, al grido di 'vergogna', il ministro della salute Andrew Lansley a Downing Street, colpevole di tentata privatizzazione della Nhs, ricorda anche le parole di Tony Benn, il leader della sinistra laburista: "Non è la politica, non sono i politici, ma è solo il popolo che cambia le cose". E aggiunge: "Nessuno ci strapperà la Nhs. Nessuno".  
Margaret Thatcher ha provato, anche lei in perfetta continuità con il pensiero e le opere di San Francesco (che cita, appena eletta, con passione, in una delle scene più interessanti del film) a cambiare il cuore e la mente dei suoi concittadini rovesciando l'impostazione di Attlee: individualismo invece di socialità, niente tasse, libero mercato, privatizzazioni, smantellamento delle organizzazioni sindacali, monetarismo. Nel 1984 distrusse le miniere e Skargill. Subito dopo tornarono agli azionisti privati British Telecom, British Aerospace e British Gas. Acciaio, acqua, Rolls-Royce e British Airways furono privatizzate. La disoccupazione falcidiò l'industria siderurgica, mineraria e manifatturiera.Il governo Cameron tuttavia non demorde e ha concepito nel 2012 la Health and Social Care bill, che vorrebbe privatizzare il sistema sanitario e che nel film viene contestata da robuste manifestazioni di massa. 
Eppure l'economista James Meadway cerca di spiegare a Loach perché è un luogo comune affermare la superiore efficienza del settore privato su quello pubblico. O c'è chi pensa davvero che l'attuale austerità sia colpa delle eccessive spese sociali e degli sprechi del settore pubblico voluti per anni dai governi di centro sinistra? Eppure il governo Labour spese meno (il 39% del Pil) nel settore pubblico rispetto a Major (40%) e Thatcher (41%). 
Sempre Meadway ci invita a scrivere altre storie e parlare di  "Quelli che considerano la solidarietà più importante della concorrenza e vogliono difendere il comune e il pubblico dall'incursione interessata del privato. Se non scriviamo questa storia possiamo dire addio al welfare.  O se, come afferma Loach, "siamo in una società in cui una gran parte dei cittadini ritiene di non essere parte della politica". Invece, come nel 1945, dobbiamo ricordare il succo di quella lezione: in quella elezione vinse il controllo democratico sull'economia. Ecco perché alla fine del film le immagini delle ragazze gaudenti che ballano e si spupazzano i loro soldatini diventano, da bianco e nere che erano, dei fiammeggianti, vittoriosi technicolor.  

(da “Il CiottaSilvestri – Rivista on line” del 28 settembre 2013)