10 dicembre
Ricky – Una storia d’amore e libertà
di Francois Ozon
con Alexandra Lamy e Sergi López
17 dicembre
Christine Cristina
di Stefania Sandrelli
con Amanda Sandrelli e Alessio Boni
14 gennaio
Happy Family
di Gabriele Salvatores
con Fabio De Luigi, Diego Abatantuono e Margherita Buy
21 gennaio
Bright Star
di Jane Campion
con Paul Schneider, Thomas Sangster e Abbie Cornish
4 febbraio
L’uomo che verrà
di Giorgio Diritti
con Maya Sansa e Alba Rohrwacher
18 febbraio
OFFICINEMA
Avanti ancora Maestro Clint Eastwood
25 febbraio
La nostra vita
di Daniele Lucchetti
con Elio Germano, Raoul Bova e Isabella Ragonese
11 marzo
L’uomo nell’ombra
di Roman Polanski
con Ewan McGregor e Pierce Brosnan
18 marzo
OFFICINEMA
Omaggio a Silvio Soldini
25 marzo
Gli amori folli
di Alain Resnais
con André Dussollier e Sabine Azéma
1 aprile
OFFICINEMA
Avanti ancora Diva Meryl Streep
8 aprile
La passione
di Carlo Mazzacurati
con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston e Cristiana Capotondi
15 aprile
Passione – Un’avventura musicale
di John Turturro
con Avion Travel, Massimo Ranieri e Lina Sastri
10 dicembre
Ricky – Una storia d’amore e libertà
di Francois Ozon
con Alexandra Lamy e Sergi López
Katie e Paco hanno un figlio, Ricky, che però nasce con due piccole ali sulla schiena. La vicenda finisce in pasto ai media e Katie dovrà compiere un vero e proprio atto d’amore per donare la libertà al piccolo.
Ricky di François Ozon inizia e si sviluppa come un film da banlieue, ma le ali disegnate sul manifesto indicano che a un certo punto ci farà volare via dal chiuso di un destino segnato, da una vita disegnata come una prigione. Quel neonato che inizia a crescere e ad occupare lo spazio della piccola casa potrebbe anche non avere le ali e occuperebbe ugualmente tutta l'attenzione, potrebbe anche non volare e arriverebbe in un lampo dove non dovrebbe essere. Potrebbe essere un Peter Pan pronto a volare fuori dalla finestra per non fare mai più ritorno, un amorino che lancia strali d'amore. Ozon accompagna la crescita delle ali allo sviluppo della vita di coppia, ora drammaticamente di incomprensione (anche l'uomo appare nella sua versione di essere alieno e un po' mostruoso), ora di riappacificazione, li collega non casualmente alla invadente presenza televisiva con i reporter tv che infine scoprono lo scoop del giorno. Insomma tiene gli spettatori appesi a un filo, prima ben controllabili in interni, poi li fa volteggiare all'aria aperta e infine li libera in volo. In sottofondo si sente una vocazione da operetta morale: dal mistero della maternità che lancia gli ormoni in orbita anche nello spazio mentale, a quello dell'arrivo del nuovo personaggio sconosciuto un po' mostro e un po' angelo, capace di catturare le solitudini e trasformarle e mantenerle ben serrate in un unicum chiamato «famiglia» a cui occorre sempre uno spiraglio di fantasia.
(Silvana Silvestri - da Il Manifesto, 9/10/2009)
17 dicembre
Christine Cristina
di Stefania Sandrelli
con Amanda Sandrelli e Alessio Boni
La vita di Christine de Pizan, italiana cresciuta alla corte di Carlo V di Francia fra stimoli culturali di ogni sorta e poi abbandonata al suo destino assieme ai figli Marie e Jean dopo la morte del Re Saggio.
Esordire come regista portandosi appresso l'aura di attrice simbolo del cinema italiano e il pesante fardello di quasi mezzo secolo della sua storia, è impresa ardua. E lo è ancor più cercare di riportare sul grande schermo un genere e un periodo storico poco in sintonia con i gusti del pubblico italiano e con i budget concessi al suo cinema: la biografia storica e il Medioevo. Di poco precedente ad un'eroina ben più conosciuta tanto agli storici quanto agli storici del cinema, Giovanna d'Arco, Christine de Pizan è in realtà un perfetto soggetto cinematografico, incarnazione di un protofemminismo che lotta per i propri figli e per un'arte sincera, popolare e, per questo, rivoluzionaria. L'idea vincente della Sandrelli e dei suoi sceneggiatori (coordinati da Furio Scarpelli, che di acuti sguardi sul contemporaneo se ne intende) è quella di farne una figura emblematica dello stato dell'arte e in particolare della contrapposizione fra arte sociale e arte di stato. La sua Christine è non a caso anche Cristina, donna che rivendica in tutto la sua condizione: il suo essere donna, madre, artista e italiana.
(Edoardo Becattini, da MyMovies.it)
14 gennaio
Happy Family
di Gabriele Salvatores
con Fabio De Luigi, Diego Abatantuono e Margherita Buy
Due famiglie incrociano i loro destini a causa dei figli quindicenni caparbiamente decisi a sposarsi. Un banale incidente stradale catapulta il protagonista-narratore, Ezio, al centro di questo microcosmo
Il coraggio non manca a Gabriele Salvatores: non tanto perché pennella di romanticismo certi slanci del cuore di solito snobbati dal cinema firmato o perché cattura preziose atmosfere in filigrana all'identikit di una metropoli ansiogena e affannata; quanto perché abbandona le comode autostrade della produzione nazionale e imbocca con viva curiosità e pari convinzione i sentieri capricciosi di un gusto indipendente e internazionale. Happy Family è una commedia nutrita di simpatica follia, una ballata che gira volutamente su se stessa, un poemetto più umoralmente perplesso che sociologicamente corretto sui meccanismi che tengono in piedi le cosiddette famiglie allargate. Un exploit reso cospicuo anche dal fatto che quando gli autori decidono di fare parlare in macchina i propri personaggi, facendoli rivolgere direttamente al pubblico «smascherando» la finzione, ne risultano quasi sempre film per noi indigeribili, pedanti e mosci. E invece - piccolo miracolo - tutto si potrà dire di Happy Family, tranne che si tratti di un film noioso o pretenzioso. Gli episodi in sé non sono tutti dello stesso livello, ma ciò che conta è l'umorismo aggraziato - ci sono persino i siparietti che dividono i capitoli, come nei vecchi film di Totò - col quale Salvatores confonde le etichette dei destini individuali, suggerisce a tutti noi esorcismi non fideistici bensì omeopatici e riesce a costringere la poesia a specchiarsi nei momenti giudicati più inadatti dal copione che qualcuno ci ha assegnato.
(Valerio Caprara – Da Il Mattino, 26/3/10)
21gennaio
Bright Star
di Jane Campion
con Paul Schneider, Thomas Sangster e Abbie Cornish
1818. John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l'Italia, dove troverà la morte.
L’inizio è semplice e disteso, l’attenzione rivolta ai dettagli, all’atmosfera, ai particolari dei personaggi colti nel bel mezzo delle loro vite e abitudini quotidiane. La casa, le stanze, i colori, le voci dei bambini e dei personaggi che risuonano, ma molto più spesso affiorano sussurrate, tra esterni e interni intrisi di garbata eleganza. Ma la leggerezza è solo apparente, anzi, è la forma con cui Jane Campion sa porgere alla nostra attenzione una storia tanto intensa e forte. Non un romanzo ottocentesco che si perde nei circoli viziosi e ingombranti della narrazione, ma un racconto fiammeggiante, di desiderio e di silenzio. La poesia nella sua forma più pura, fatta di sguardi e di stupore, che nasce dai pensieri e si allarga a travolgere ogni cosa. È poesia il gesto che si ripete, e sono poesia le parole lasciate scorrere sottovoce, e quelle non dette e non scritte, che stanno in profonditá ma spingono il ritmo e il tono di questo film verso una rarefazione che è taglio e ferita. In the Cut, appunto, perchè il sangue che scorre quasi non si vede, perchè le parole sono sempre più ossessione da ascoltare e da scrivere, come fossero essi stessi corpi debordanti di fisicitá e urgenza che, alla fine, divorano il silenzio e si spengono nel pianto. Tutto passa attraverso lo sguardo di Fanny, il tremore, la paura, l’emozione a loro volta vissuti attraverso la poesia di Keats. Un sottile gioco di rimandi, una corsa a perdifiato fino a non avere più fiato. Ancora una volta, nel cinema di Campion, volare e precipitare seguono gli stessi meccanismi.
(Grazia Paganelli, da Sentieri Selvaggi, 11/6/10)
4 febbraio
L’uomo che verrà
di Giorgio Diritti
con Maya Sansa e Alba Rohrwacher
Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi in una brigata partigiana.
In mani meno abili poteva diventare retorico. In quelle di Diritti e dei suoi eccellenti interpreti, scelti mescolando non professionisti ad attori veri come Alba Rohrwacher, Maya Sansa o Claudio Casadio, diventa un esercizio di straniamento poetico che ripaga lo spettatore con un'emozione e una comprensione delle cose straordinarie. Una madre incinta (Sansa); una zia che torna dalla città, l'unica che sa leggere e scrivere (Rohrwacher); una bambina che non parla più per un trauma (la commovente Greta Zuccheri Montanari) ma vede e capisce tutto di tedeschi, ribelli e alleati, tanto da scrivere un tema così compromettente che la maestra glielo brucia. Poi i racconti la sera, tutti insieme, adulti e bambini, si parli di emigrazione o del partigiano che ha ucciso un fascista. In dialetto naturalmente, una lingua sonora e pietrosa oggi quasi estinta che dà peso e rilievo a ogni parola. Così fra il dicembre '43 e il settembre '44 prende vita un microcosmo pulsante di affetti, dubbi, speranze, paure, che prima di esser spazzati via dall'eccidio, messo in scena con aspro pudore e dettagli rivelatori (quel prete che si unisce ai balletti nazisti per evitare che la festa degeneri in orgia, e finisce ucciso), acquistano un'innocenza, una densità, una verità, scomparse nel cinema d'oggi. Un capolavoro, limpido e accessibile, di cui essere orgogliosi. Chiedendosi anche perché ci siano voluti tanti anni per avere un film così libero e rigoroso sul tema.
(Fabio Ferzetti - da Il Messaggero, 22/1/10)
18 febbraio
OFFICINEMA
Avanti ancora Maestro Clint Eastwood
25 febbraio
La nostra vita
di Daniele Lucchetti
con Elio Germano, Raoul Bova e Isabella Ragonese
Claudio è un giovane operaio trentenne, padre di due figli e in attesa del terzo, la cui esistenza felice viene sconvolta dalla morte della moglie Elena.
Ancora famiglie per Daniele Luchetti. Secondo una voga, del resto, ormai abbastanza diffusa nel cinema italiano. Questa volta, però, a differenza di Mio fratello è figlio unico che si riferiva al passato, o comunque agli anni roventi del dopo ‘68, con uno sguardo decisamente rivolto al presente, anzi all’attualità di questi nostri armi così contraddittori e turbati. Luchetti il testo se l’è scritto con Rulli e Petraglia e, pur dando spazi, con tutta l’attenzione possibile, a quel radicale mutamento di intenzioni e di gesti del protagonista, gli ha costruito attorno, con accenti colorati e felici, una galleria di personaggi solo in apparenza secondari, ma capace ciascuno di dare il suo contributo al procedere dell’azione. Con pagine in cui poi la regia, quasi sempre guidata dalla macchina a mano, ha mostrato di saper alternare i ritmi più affannati e spesso anche angoscianti a pause di intensa emozione. Come la scena muta e distante in cui Claudio apprende la morte della moglie o quella, concisa ma intensa, che lo induce a svelare a un giovane sempre pronto a fidarsi di lui il suo colpevole silenzio su un incidente nel cantiere che aveva provocato la morte di suo padre. Qualche scompenso narrativo e una certa insistenza in situazioni solo marginali sono comunque riscattati da una interpretazione sempre salda e felice a cominciare da quella di Elio Germano, un protagonista di una gestualità e di una mimica mobilissime e prodighe di espressioni anche forti.
(Gian Luigi Rondi – da Il Tempo, 20/5/10)
11 marzo
L’uomo nell’ombra
di Roman Polanski
con Ewan McGregor e Pierce Brosnan
Uno scrittore viene assunto per rimpiazzare un collega morto mentre stava scrivendo la biografia del Primo Ministro inglese Adam Lang. Questi è al centro di polemiche per aver permesso alla Cia di agire in territorio britannico, catturando sospetti terroristi e sottoponendoli a tortura.
La realtà come ordito paranoico neanche troppo immaginario, il personaggio come catalizzatore di angosce collettive che si materializzano nella quotidianità, la messa in scena come sistema di rappresentazione atto a elaborare la metafora del vivere... Non c'è dubbio che L'uomo nell'ombra è un film di Roman Polanski, ne porta tutti i segni e soprattutto l'insistente retrogusto al fiele che ne avvelena con amara ironia ogni passo. Rivisto dopo il passaggio all'impronta della Berlinale, il film conferma e rafforza l'idea di un'opera nata dallo spirito più pieno del regista polacco, elaborata sul rapporto tra il detto e il non detto dei protagonisti, nel senso oscuro di un passato che definisce nell'ombra la faccia dei personaggi illuminata nel presente. Hitchcockiano, certo, L'uomo nell'ombra ha le stimmate del maestro del brivido sia tematicamente (nel proiettare il protagonista in un universo “altro”) sia espressivamente (basti guardare la meravigliosa sequenza del prefinale, col passamano del biglietto rivelatore seguito con esemplare pregnanza dalla macchina da presa) e anche in questo si conforma al romanzo di Robert Harris dal quale è tratto. Polanski mantiene alta la tensione con uno stile tagliente, sezionando ogni passaggio con inquadrature nette e essenziali. Thriller psicologico classico in piena forma, insomma, anche se poi l'autore si ingegna a stare dietro alla detection adottando una sorta di cinico disincanto nel quale lascia rifluire tanto la tensione quanto il valore stesso del mistero, destinato a volare via nel postfinale che gli spettatori affrettati rischiano di farsi sfuggire.
(Massimo Causo – da Il Corriere del Giorno)
18 marzo
OFFICINEMA
Omaggio a Silvio Soldini
25 marzo
Gli amori folli
di Alain Resnais
con André Dussollier e Sabine Azéma
Marguerite esce da un negozio di scarpe e subisce il furto della borsa. Georges trova il suo portafoglio per terra, nel parcheggio di un centro commerciale e comincia a fantasticare su di lei, ancora prima di contattarla, senza conoscerla.
L'ultima follia di Alain Resnais, che ha 87 anni, arriva nelle sale. Gli amori folli è uno tra i suoi film più belli. Una strabiliante lezione di libertà, un esercizio di incredibile acrobazia e anche una storia d'amore insolita e leggera, che unisce una coppia improbabile e divertente: Marguerite, una tempesta di fascino che sembra scappata fuori da un libro a fumetti, e Georges, tranquillo pensionato che tuttavia nasconde qualche tizzone di brace sotto la cenere. È un portafoglio a riattizzare il fuoco. Georges lo trova in un parcheggio e vuole assolutamente incontrare la proprietaria, Marguerite. Liberandosi con discrezione dalle catene del realismo, senza però mai lasciarsi andare a una deriva surrealista, questa storia invita continuamente lo spettatore a perdersi insieme alci. Arricchito con un'infinità di riferimenti a tutto quello che piace a Resnais, il film è una vera cascata di linfa vitale, mescolata sottilmente e intimamente con l'ombra della morte. Questo lo rende un film unico, il cui maggior pregio (bisogna dirlo con tutto il tatto e la cautela del caso) è di avere un piede nell'infanzia e uno nella tomba. Sembra un addio urlato con folle eleganza e sconvolgente serenità.
(Jacques Mandelbaum – da Le Monde, in Internazionale, 30/4/10)
1 aprile
OFFICINEMA
Avanti ancora Diva Meryl Streep
8 aprile
La passione
di Carlo Mazzacurati
con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston e Cristiana Capotondi
Gianni Dubois, inconcludente regista cinematografico, a 50 anni troverà il modo per rivestire i panni da regista per una Sacra Rappresentazione recitata dagli abitanti di un paese. Con l'aiuto di un ex galeotto e una sorridente barista polacca, riuscirà a ritrovare la forza per una necessaria svolta umana.
Da Venezia sottolineavamo l'anomalia della Passione, film non classificabile in un genere e difficilmente collocabile nel panorama del nostro cinema. Ora che il film arriva nelle sale, sarà bene rimarcarne le caratteristiche più riconoscibili, per dare allo spettatore una pista che invogli alla visione. La pista potrebbe essere Silvio Orlando. Simpatico e bravissimo come al solito, interpreta un regista cinematografico (no, non come nel Caimano, come pure qualcuno ha scritto: là era un produttore!). La pista ci porta in luoghi che ben conosciamo: la provincia bucolica e cartolinesca del Chiantishire; i ritmi di una vita lontana dalla città, dove i possessori di telefonini fanno la coda per l'unico punto del paese in cui «c'è campo»; l'umanità di un «mondo piccolo», per dirla con Guareschi, dove ad ogni angolo si nasconde il dettaglio buffo (La passione non è una commedia ma fa molto ridere). Poi, siccome Carlo Mazzacurati è un regista dall'occhio acuminato, l'idillio della provincia si rivela quasi subito illusorio. Gli amministratori locali (al 99% del Pd, ma il film non lo dice) sono delle belve, il ricatto è evidente, la nevrosi del regista non guarisce. Ma forse, vedendo - letteralmente - un povero Cristo messo in croce, verrà messa in diversa prospettiva. Film lieve ma delizioso, fatto di frammenti azzeccatissimi, con attori stupendi (oltre a Orlando, applausi a Giuseppe Battiston, Marco Messeri, Cristiana Capotondi e un enorme Corrado Guzzanti).
(Alberto Crespi - da L'Unità, 24/9/10)
15 aprile
Passione – Un’avventura musicale
di John Turturro
con Avion Travel, Massimo Ranieri e Lina Sastri
La canzone napoletana raccontata da John Turturro, fra sceneggiate, canzoni, la Storia e le tradizioni di una città.
Forse per uno sguardo “straniero” è più facile che per il nostro cercare di afferrare l’essenza profonda di un popolo attraverso la sua musica. E così lo “straniero” Turturro gira il suo Buena Vista Social Club a Napoli e ci spiega, con estrema naturalezza, che le canzoni napoletane dicono, ad esempio “io ti amo tantissimo e voglio stare insieme a te, ma se tu non vuoi stare con me ok, mi metterò con tua sorella!” perché (aggiunge Turturro nel film) i napoletani sono così. Quale sintesi migliore per spiegare quel mix di ironia e ostinazione che caratterizza gli abitanti di questa città unica al mondo?Passione è, dunque, un affettuoso omaggio alla canzone napoletana come specchio del popolo partenopeo, nel quale si passa con estrema disinvoltura dai grandi nomi della ricerca filologica (Barra, Avitabile), agli innovatori (Raiz, Senese) fino ai cantanti di strada, senza mai abbassare la carica emotiva che resta, sempre e comunque, altissima. In perfetto stile partenopeo, poi, Turturro trasforma i classici in “sceneggiate”, così, “Comme facette mammeta” si trasforma in proto-video di Jennifer Lopez, “Malafemmina” rievoca la genesi della canzone (che Totò scrisse quando fu lasciato dalla moglie) attraverso i volti di Massimo Ranieri e Lina Sastri, fino al divertentissimo “Caravan petrol” con Fiorello e Turturro che inscenano una esilarante balletto in una solfatara.
(Roberto Rosa – da Sentieri Selvaggi, 26/10/10)